Il comunismo che fu. Scorretto
Èuna bella politica, interpretata da una bella persona, ma non di meno in ritardo. Eccessivo. Dovuto alla paura culturale, non meno che alla paura d'eccessiva eresia interna a una ecclesia. Conosco il limite di quel che sto sostenendo, il quasi sconfinare nel ridicolo di una simile tesi, giacché Macaluso è costantemente accusato d'eresia ed eccessi riformisti. Ma, appunto, il più avanzato, di quel che fu il mondo comunista, è terribilmente arretrato rispetto alla realtà. Per chi voglia gustare un po' di buona politica, servita con l'eleganza di una delle migliori cucine, quella migliorista, non esiti a leggere «Politicamente s/corretto» (Dino Audino Editore), scritto assieme a un altro uomo schietto e retto della sinistra, che sconta con l'isolamento la propria testarda incapacità d'essere troppo molle con chi si crede forte, Peppino Caldarola. Venghino, signori, e prendano pure posto in questo angolo di genuinità. Ma conservino il gusto della politica e non offendano i gestori immaginandoli anzitempo interpreti di una celebrazione: sono vivi, colmi di passione politica, combattenti non inclini alla resa, sicché meritevoli di giudizi puntuti: i piatti sono di gran classe, ma vecchi. Stanno ancora facendo i conti con il mondo del passato, nel quale furono in ritardo, al punto che solo immedesimandosi assai si può cogliere il loro messaggio per il futuro. Macaluso me lo ricordo ch'ero piccolo, esponente di un mitico e granitico Partito comunista siculo. Grande scuola, tutt'altro (la scuola) che esente da colpe. Anche quando gli ammazzarono uno degli uomini più esposti, Pio La Torre, dalle fila di quelle docenze ci furono immonde connivenze con gli assassini. Macaluso è uomo capace di dire cose nette sulla grande bufala dell'inchiesta sulla «trattativa», ma ne occorrono di più affilate e severe sul ruolo del Pci nell'isolare e annientare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un passato che non passa, quello. Nel frattempo è passata, invece, la grande scuola, e il Partito democratico di oggi, in Sicilia, partorisce mostri, mette in campo uomini e candidati che sono fra i più dispendiosi, ha preso il posto della Democrazia cristiana che Macaluso combatteva, s'arruffiana con il peggio. È stato ed è un garantista, Macaluso. Solo in un Paese incivile il «garantismo» è una posizione politica, giacché ove il diritto non s'è troppo storto altro non significa che fiducia e rispetto delle leggi e di chi le applica. Da noi no, da noi serve a rammentare che «accusa» non è sinonimo di «giustizia». Macaluso lo è stato in anni difficili, quando il giustizialismo era non solo teoria dottrinaria (si sono scritti libri che rimangono a imperitura vergogna, di chi non li condannò, perché chi li scrisse di vergogna non è capace), ma tecnica e pratica di conquista del potere. Anni non finiti, quindi passato non passato. Giù il cappello. Ma ciò non gli impedisce di fraintendere ancora, immaginando, anzi fantasticando, che dal manipulistismo i comunisti si salvarono perché i loro uomini raccolsero sì illecitamente i soldi, ma non per sé. Loro, la cui classe dirigente veniva allocata in case di favore. Loro, la cui vita, carriera e quindi reddito era delegata ai riti della grande chiesa rossa. Loro, i cui figli poterono accedere a posti importanti grazie alla stima che si doveva alla loro famiglia, laddove i figli degli altri venivano collocati per immonda pratica della raccomandazione. Questa visione antropologica, questa favola del comunista onesto, a fonte del socialista lestofante e del democristiano immorale, è grottesca. Falsa come di più non si potrebbe. Ma potente, tanto da ritrovarsi ancora nelle parole di chi sa rompere la calma placida del luogocomunismo. Segnalo questa debolezza perché in questa si trova l'indizio del non essersi affrancati dall'arretratezza. La paura di demolire troppo, fin a dovere ammettere d'avere sbagliato, in prima persona. Io la vedo così: chi è stato comunista ha sbagliato. S'è acceso per ideali di eguaglianza e giustizia, ma ha preso fuoco per un'ideologia di dispotismo, povertà e illibertà. E quello fu solo l'innesco, perché poi i miglioristi pensarono di tradurre l'economia pianificata in economia programmata, quando la programmazione aveva fallito da anni; pensarono di far cadere la condanna ideologica contro i socialisti, ma quando il socialismo europeo era tramontato da lustri; supposero d'approdare alle sponde socialdemocratiche, fingendo d'ignorare che inglesi e tedeschi avevano profondamente cambiato il senso di quella parola. Erano più avanti della gerarchia ufficiale della loro chiesa-partito, ma micidialmente indietro rispetto alla realtà politica d'Europa. E, soprattutto, da Giorgio Amendola (un gigante, figlio di un grande liberale) a Giorgio Napolitano, così come anche vale per Macaluso, non hanno mai avuto il coraggio della rottura. Mai. Semmai si ruppe il loro mondo, ma senza che mai loro uscissero da quell'ordine ecclesiastico di cui la loro ragione vedeva per intero la debolezza e l'errore, ma cui l'abitudine alla fede e, diciamolo, la comodità della posizione, suggerivano di far finta che ci si potesse limitare a storcer la bocca. C'è un passaggio in tal senso illuminante, nel libro, quando Macaluso dice a Caldarola che il governo di Bettino Craxi era serio e forte. Poi aggiunge: da direttore dell'Unità lo attaccai duramente. Che altro si può aggiungere? Una sola cosa: Macaluso rientra fra i più intelligenti difensori dell'operato dell'attuale presidente della Repubblica. Se non fossero figli di quel medesimo seminario, se la fiducia e stima personale non funzionassero da garanzia, quelle stesse parole e opere sarebbero state oggetto di critiche durissime. Sta in questo la gran differenza fra la bella politica concepita in quella chiesa e la bella politica che rimane nei sogni di qualche laico vagante.