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Le tre cupole che fanno bella Roma

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Al taglio del nastro nel 2002 c'era chi non ci credeva Oggi la grande struttura è tra le più amate della città

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Insomma,la reificazione dell'Auditorium, finito, immanente, lì, a portata di mano con le sue tre cupole-scarafaggi, sembrava un sogno a lieto fine. E sì perché i romani lo aspettavano da vent'anni, come un'araba fenice che appariva e poi sfumava nel deserto delle buone intenzioni. Inseguito da tutte le giunte, da tutti i sindaci, da tutti i sovrintendenti dell'Accademia di Santa Cecilia. Evocato con progetti e individuazione di siti e poi dissolto nel lacci e lacciuoli della burocrazia, dei veti incrociati, dei paletti politici, dei niet degli archeologi, per non parlare di quelli dei Verdi. E invece, giusto dieci anni fa, eccola, l'Inaugurazione. Con la maiuscola, e per due motivi. Il primo, appunto, la realizzazione di un sogno. Il secondo perché l'Inaugurazione era stata preceduta da almeno una decina di «inaugurazioni». Tralasciamo la posa della prima pietra, che fu il primo Evento, col sindaco in fascia tricolore e la barba castana di Renzo Piano, l'archistar vincitore del concorso internazionale che avrebbe visto diventare grigia, la barba, dato che la costruzione dell'Auditorium si è trascinata per otto anni, dal 1994 al 2002, appunto. Ma poi ci furono i tagli del nastro a ripetizione, a ogni muro tirato su, a ogni tetto coperto. I cronisti convocati dal Campidoglio li ricordano bene. Specialmente uno: l'apertura della cavea. Era un giorno caldo d'estate e toccò zampettare sotto il sole, nella polvere del cantiere, fino a sedersi su scalini di mattoni altrettanto impolverati. Ma tant'è, la macchina del consenso capitolino - la poltrona di sindaco era occupata da Rutelli e poi da Veltroni - si costruiva proprio facendo fare all'Auditorium, e alla telenovela dei battesimi di ogni metro quadrato costruito, il battistrada della moda delle inaugurazioni virtuali, quando di un progetto c'è poco più che il progetto. E però, l'attesa, l'incredulità, è stata ripagata. E gli scettici si sono trovati di fronte allora, e godono tutt'ora, un surplus di auditorium impensabile nella Capitale dell'irrisolto e delle incompiute. Il cittadino comune mai avrebbe immaginato che cosa sarebbe diventato. Insomma, avrebbe scoperto che non solo di Auditorium si trattava - ovvero di tre sale da concerto, di diverse dimensioni per adattarsi al richiamo di pubblico o al fatto che proponesse musica sinfonica o cameristica al fine di dare spazio all'attività della prestigiosa Accademia di Santa Cecilia, alla quale da decenni andava troppo stretto la sala di via della Conciliazione. Si sarebbe invece accorto che era un contenitore flessibilissimo, dove tutto poteva accadere, come in una cittadella autonoma e tentacolare. Un paese dei balocchi, con giocattoli non di cartapesta, ma formativi per ciascuno. Di qui il salto semantico: non Auditorium tout court, ma Parco della Musica, come quello della nuova Berlino aggrumato attorno a Potsdamer Platz (non a caso opera anche di Piano) dove le sale da concerto della Philarmonie si sommano a quelle d'esposizione e ancora al quartier generale del Festival del Cinema che assegna ogni anno l'Orso d'oro. Certo, lì si è andati più veloci di una meteora e senza troppi ripensamenti. A Roma invece il progetto iniziale - finalmente individuato il sito, che prima doveva essere al Borghetto Flaminio - si è dovuto adattare al ritrovamento di una fornace e di case della città antica. E così i volumi delle tre sale che dovevano insistere su una piastra incassata nel terreno si sono dovuti alzare, urtando contro lo skyline della collina di Villa Glori. Ma il principale intento di Piano, trasformare un posto disgregato e di passaggio, tra il Palazzetto dello Sport e il viadotto di corso Francia, in una polarità densa di significati si è pienamente realizzato, in questi dieci anni, e ogni anno si realizza di più. A fare del Parco della Musica non un non-luogo, come i centri commerciali o le stazioni, sempre pieni di persone però mai usati per sostare. È invece il luogo per eccellenza, nel quale aggregazione coincide con elevazione culturale, scambi intellettuali con il resto del mondo e insieme consapevolezza della propria identità. Musica per Roma, che gestisce senza passivi l'Auditorium, ha saputo riempirlo con le più svariate proposte. Ecco i concerti, di classica, di rock, folk, colonne sonore. Ecco il cinema, soprattutto con il Festival e il capitolino red carpet; ecco gli incontri con l'autore, le conferenze, come le gettonatissime Lezioni di Storia; ecco il palco per la danza. Ecco lo scorcio archeologico, con il piccolo museo e la veduta dei ruderi ritrovati durante la costruzione. Ed ecco le fiere di libri, di floricoltura, come Giardini in terrazza. Il bello è che al Parco della Musica non va solo chi vuole assistere a una delle tante proposte. Ci si va pure per passeggiare sui giardini pensili, per comprare un disco o un volume nella grande libreria; per mangiare un panino o pranzare o gustarsi l'happy hour. Per incontrarsi sotto i portici, e chiacchierare all'aperto anche quando piove. Magari, un giorno, la passeggiata potrebbe allungarsi al vicino MAXXI, il museo di Zaha Hadid che grazie a un sinergia convinta con l'Auditorium potrebbe uscire dall'impasse che lo ha portato vicino al commissariamento e ora lo ha messo nella mani di Giovanna Melandri. Il Parco della Musica, o Auditorium come sbrigativamente si continua a chiamarlo, è tutto questo e molto altro può essere. Ha riempito in dieci anni l'album dei ricordi dei romani, con le foto di Roger Waters, con quelle di Abbado e Pollini, di Morricone o dei divi di Twilight. Lunga vita all'Auditorium.

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