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Serata inaugurale con il «Giro di vite» di Britten in stile horror

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Nonpoteva mancare all'appello, dopo la Scala e l'Opera di Roma, il Festival di Spoleto. La scelta del direttore artistico del Festival Giorgio Ferrara, che firma anche la regia, è caduta su The Turn of the Screw (il Giro di Vite), opera da camera scritta nel 1954 su un libretto di Myfanwy Piper desunto dall' omonimo racconto di Henry James (1890) influenzato dalla coeva psicanalisi ed imperniato su un ambiguo legame di plagio, fatto di paure, segreti sottaciuti e deviazioni, tra due ragazzi e la coppia di spiriti dei loro ex istitutori. Geniale la intimistica partitura per soli 13 strumenti ( tra cui la celesta e l'arpa adeguate all'alone di mistero) che racconta una storia di genere noir (oggi diremmo quasi horror alla Dario Argento) imperniata sul plagio e l'indottrinamento a distanza di due adolescenti da parte di due presenze ectoplasmatiche con la reale istitutrice che cerca di salvarli. L'allestimento spoletino colloca l'azione in un ambiente claustrofobico, strozzato ai lati da due pareti di vetusti palazzi e sul fondo da una fitta serie di sepolcrali cipressi, con espresso riferimento al celebre dipinto de L'isola dei morti di Böcklin. Tutto si colora così di cupo, di allucinato, di «noir» con tinte gotiche quasi anticipando certa cinematografia dei nostri tempi con contrapposizione tra bene e male, innocenza ed influenze malefiche, angeli e demoni in una sorta di storia «maudite», nella quale il piccolo Miles (voce bianca) soccomberà dopo la estorta confessione esorcistica e la più fortunata Flora riuscirà a scamparla. Eccellente la resa musicale con un cast di interpreti ben disposti, specie la determinata istitutrice interpretata magistralmente da Marie Adeline Henry e la fantasmatica coppia (Leonardo Capalbo e Emily Righter) che appare dietro vetrate o sopra balconi protesi nel vuoto. Bene anche la giovane direzione di Johannes Debus, attenta a suscitare le dovute sfumature dell'azione psicologica.

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