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di Francesco Perfetti L'uomo non era affatto un demagogo.

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Nonera nulla di tutto questo, il conte Camillo Benso di Cavour. Eppure, l'idea di una sua spregiudicatezza politica è passata alla storia sedimentandosi nell'immaginario collettivo e ha finito per accreditare il ritratto di un Cavour furbastro e machiavellico, capace di tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. In realtà Cavour fu tutt'altra cosa. E la sua politica fu assai meno furba di quel che si crede. È quanto sostiene un grande storico, Adolfo Omodeo, in un'opera non a torto considerata il suo vero capolavoro, «L'opera politica del Conte di Cavour»: un'opera che, pubblicata in origine nel 1940, è stata appena riedita dalla casa editrice Mursia con una bella prefazione di Giuseppe Galasso e una puntuale postfazione di Beppe Benvenuto. Cavour aveva la capacità invidiabile di saper penetrare con accortezza nelle «altrui intenzioni» ma «rifuggiva dal culto della furberia, dai raggiri e dagli stratagemmi che rasentavano la frode, dalle menzogne che sono assegni a vuoto». Era piuttosto un «uomo d'affari» che «trasferiva nella politica il senso del limite, entro cui soltanto il commercio è commercio e non frode». Un politico concreto e realista, insomma, un «uomo del giusto mezzo» che, pur isolato, aveva legato il proprio nome a iniziative economico-finanziarie e culturali e si era tenuto fuori dalla «trafila delle congiure e dei cenacoli mazziniani» della cui importanza e del cui peso, quasi un male inevitabile, era però consapevole al punto da non poterle ignorare. Un pragmatico, diciamo pure, intriso di liberalismo. La caratterizzazione liberale di Cavour è ribadita continuamente nel volume di Omodeo: «applicar la libertà in tutti i diversi campi dell'economia, della politica, della religione: questo l'ideale inglese-svizzero del Conte». Poi altri studiosi di Cavour avrebbero avallato una lettura del genere, o sarebbero partiti da essa o ne avrebbero, attraverso percorsi diversi, condiviso o sviluppato i termini. Quando Adolfo Omodeo ebbe a delineare questo ritratto di Cavour in un'opera rimasta incompleta, la storiografia, a parte i lavori più propriamente agiografici, ruotava attorno a due interpretazioni della vicenda politica e umana dello statista piemontese. Da una parte vi erano coloro, come il tedesco Heinrich von Treitsche o il diplomatico francese Maurice Paléologue, che ne davano una lettura in chiave, per dir così, realistica presentandolo come personificazione del Realpolitiker, uno spirito machiavellico e senza principi ideali, preoccupato solo dei risultati concreti. Dall'altra parte, vi erano coloro che ne sottolineavano la caratura ideologica, il liberalismo cioè, in qualche misura mutuato dalla sua cultura politica ed economica. Non mancava neppure chi, come Giovanni Gentile, ne metteva in luce il patriottismo spinto al punto da bruciare «sull'altare di questa sua Patria» qualsiasi ideale, qualsiasi sentimento, qualsiasi interesse: «perfino lo Statuto, se fosse stato necessario, perfino la religione, se questa si fosse mostrata incompatibile con lo Stato, in cui la Patria doveva prender corpo». L'interpretazione contenuta nell'opera di Omodeo - che non è una biografia tradizionale ma un affresco di storia in cui Cavour è centrale - appariva innovativa: pur non negando il momento realistico della politica cavourriana, essa ne sottolineava la fedeltà «fermissima» e senza oscillazioni nell'ideale liberale e, soprattutto, ne individuava e precisava differenze, contiguità e complementarità con altri filoni politici a cominciare dal mazzinianesimo. Non a caso l'ultimo capitolo del volume di Aldolfo Omodeo è dedicato a Giuseppe Mazzini, al suo profetismo politico, alle sue iniziative rivoluzionarie, quasi a voler mettere a confronto metodi e ideali cavourriani con quelli della componente più propriamente rivoluzionaria. La modernità dell'approccio di Omodeo sta anche nell'aver saputo combinare l'analisi della politica interna e nazionale del Piemonte e del progetto cavourriano di realizzare un regime liberale parlamentare e moderato nell'Italia in costruzione, con uno studio attento delle vicende risorgimentali inserite in un più generale contesto europeo, secondo quella idea della «circolarità» o «unità della vita europea» mutuata da Benedetto Croce. Il richiamo alla necessità di un approccio storiografico che tenesse presente il rapporto Risorgimento-Europa avrebbe rappresentato, peraltro, e in seguito, il cavallo di battaglia di un grandissimo storico, Franco Valsecchi, che fu per molti anni anche autorevole collaboratore di questo giornale: è celebre la sua battuta che invitava gli studiosi a studiare "Torino vista dall'Europa e non l'Europa vista da Torino», come la storiografia provinciale e agiografica aveva, invece, in gran parte fatto e si ostinava a fare. Ed è, a tal proposito, significativo che talune intuizioni di Omodeo sulla genesi della partecipazione italiana alla guerra di Crimea, a cominciare dal ridimensionamento dell'effettivo ruolo di Cavour nella decisione di intervenire nel conflitto, abbiano trovato poi conferma e documentazione di supporto proprio nella grande analisi di Valsecchi confluita nel volume «La guerra di Crimea», una delle opere più suggestive della letteratura storiografica sul periodo risorgimentale.

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