di Lidia Lombardi Giorgio Mece è figlio di un pascià albanese.
Peròl'accento è romano de Roma. Racconta la sua storia di fronte a una vallata che da verde di prato diventa multicolore di fiori. Giorgio è il «pascià» di La Tacita e di Vacunae Rosae, in Sabina, vicino al borgo di Roccantica. La prima è una country house al centro di 130 ettari coltivati. Il secondo è un roseto impiantato una decina d'anni fa e già entrato nel circuito di quelli che contano, sede di concorsi internazionali e meta di pellegrinaggio degli appassionati del settore, che sono esclusivo e trinariciuto club. Ma torniamo al signor Giorgio. Suo padre studia all'estero, a Vienna, come si conviene ai figli maschi dei pascià (e la sua è la famiglia albanese più in vista, ricchi possidenti terrieri). Poi viene nella Città Eterna, sposa una romana, torna in Albania, diventa prefetto di Durazzo e sottosegretario agli Interni. Con l'arrivo dei fascisti, il pascià musulmano finisce in campo di concentramento, nel '52 riesce a trasferirsi in Canada, nel '65 riapproda in Italia. E assiste all'irresistibile ascesa del rampollo Giorgio. «Dopo buoni studi me ne vado via di casa - racconta Mece - mi butto nella fiscalità internazionale, conquisto una posizione solida». A 39 anni, il richiamo della terra. «Decido di avere un'azienda agricola, scelgo questo posto. Comincio con 30 ettari, che man mano diventano 130. Mi innamoro della botanica, accumulo letture specialistiche. Studio Shaigo, l'esperto giapponese che individua le relazioni tra le piante. È lui a spiegarmi perché una delle mie sequoie è diventata bruna: "Ha un fico vicino, un albero che odia". Ho 30 dipendenti, produco olio, vino, frutta, tartufi. Posseggo il secondo impianto di fitodepurazione della Sabina. Nei padiglioni a valle allestisco convegni e ricevimenti. Abbiamo 300 ricette a base di rose, ispirate da Sciullo». E il roseto? «L'ho voluto io, nel 2000. Ma la regina è mia moglie, chiedete a lei». Paziente, la signora Anna Chiara mi accompagna nel mistico viaggio tra 7 mila piante di rose di 5 mila varietà. È un tripudio di corolle, ci sono le contemporanee e le antiche, tante vengono dall'Oriente, si arrampicano su cancellate e tralicci. «Fioriscono fino a dicembre, una varietà per volta», dice fermandosi davanti a un bocciolo bianco di bracteata, rosa cinese del 1793, che «finalmente si sta aprendo». Sette fontane colorate (nomi mitologici, come Virgo e Psiche), sono altrettante stazioni del roseto che ha la forma di ala d'angelo. A inizio percorso un giardino secco di tradizione Zen - rocce zoomorfe posate su cerchi concentrici formati dalla ghiaia del Tevere - induce alla meditazione. Salire sul pontile fa spaziare lo sguardo sul labirinto di rose che il terreno duro della Sabina favorisce. Simbolismi e miti sono usciti dalla sapienza di Gian Paolo Bonami - psicologo, docente universitario e progettista di giardini - che ha ideato il roseto privilegiando installazioni verticali, omaggio a Vacuna. È la dea dei boschi, silente genius loci contrapposto alla cacciatrice Diana. Rispetta il monte Fiolo che dà ombra all'hortus conclusus del pascià.