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dall'inviato Stefano Mannucci MILANO Tre anni fa, quando si materializzò per l'ultima volta da queste parti, Springsteen fischiettava il motivetto di un «sogno da realizzare».

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Ora,nel 2012, il sostegno per il presidente c'è ancora, ma si è fatto più dubbioso, e se proprio occorre sentirsi al fianco di qualcuno, il rocker preferisce schierarsi al fianco dei contestatori di Occupy Wall Street, e degli Indignados di mezzo mondo. Ovunque abbia fatto tappa la sua tournée, il Boss ha speso parole e canzoni per ricordare che i tempi stanno cambiando: ma non come si augurava ottimisticamente Dylan mezzo secolo fa. E se c'è un vento che soffia, non è quello che mormora risposte, bensì quello che diffonde la peste economica, che fa ammalare tanti di una povertà inaspettata, nel mondo dove «i banchieri ingrassano e i lavoratori diventano sempre più magri». Qualche settimana fa, alla premiere europea di questo suo tour globale, Bruce è riuscito perfino a scherzarci su, con uno slogan perfetto per un immaginario partito trans-nazionale: «Socialismo per i tycoon, capitalismo per tutti gli altri». Ma quando sale sul palco, non c'è bisogno di far comizi malinconici e ruffiani: per lui parla l'immensa potenza del suo rock'n'roll, il rito laico che celebra in pubblico da quasi quattro decenni e che ora, a 63 anni, sembra aver reso ancora più potente, enfatico, sontuosamente ribelle, senza però mai trascurare la giocosità del ballo, della condivisione positiva, del «we take care of our own», il «ci prenderemo cura di noi stessi» (se nessun politico saprà farlo per noi), come recita uno dei suoi nuovi inni. È un'epoca recessiva per le tasche e per lo spirito, e allora balliamoci sopra, ma nessuno si aspetti un girotondo da pagliacci storditi, qui si canta la rabbia e l'orgoglio, la forza dell'essere tutti insieme, nel rispetto di ogni destino individuale, e che nessuno resti indietro, nessuno smetta di sperare. È la sua quarta volta a San Siro, dal suo leggendario debutto dell'85, lo schiaffo violento al reaganesimo imperante: poi tornò in questo stadio (uno dei suoi preferiti a ogni latitudine) per cantare «The rising», il riscatto dell'America traumatizzata dal crollo delle Torri, e ancora - si diceva sopra - l'euforia obamiana del 2009, «Working on a dream». Adesso invece, con un nuovo album che annuncia lo schianto di una «wrecking ball», una palla demolitrice che potrebbe frantumare sia i sogni dei derelitti che i piani degli speculatori, il suo concerto si è fatto più ecumenico, meno tipicamente «bianco-rock» e più nero, le mani alzate per recitare il gospel (la nuova «Rocky ground») e il soul (la vecchia portentosa «Spirit in the night») in un mare di classici del suo repertorio, quei personaggi e quegli sketches che sembrano tratteggiati da Steinbeck, Faulkner, o Richard Ford. Come in «Jack of all trades», l'uomo che rassicura la sua donna sui mille mestieri che giura di saper fare, e insomma in qualche modo amore mio ce la caveremo, mentre la E Street Band suona dolente ed elegiaca come a un funerale di New Orleans. Un brano stavolta dedicato non solo a tutti gli americani che hanno perso casa e lavoro ma anche a tutti quelli che stanno lottando compresi i nostri terremotati. O come in «Death in my hometown», la ribalda giga irlandese dei lavoratori licenziati in una delle mille città condannate a diventare fantasma per via della crisi. In un concerto che dura quasi quattro ore, Springsteen ci mette meno di dieci minuti per essere riconfermato leader intercontinentale del rock: il tempo di arrivare a «Badlands» e i cinquantamila del «Meazza» rispondono all'unisono in quello che da tempo immemore è il furente pamphlet elettrico di chi guarda l'orizzonte e non ci trova dentro neanche un miraggio. Qui c'è il primo assolo di sax di Jake Clemons che si ritrova sulle spalle la pesantissima eredità dello scomparso zio Clarence, il big man della E Treet Band, che Bruce ricorderà alla fine dello show, quando interromperà al momento giusto «Tenth avenue freeze-out» per lasciar scorrere le immagini del sodale di una vita. Ma anche nel mezzo della fluviale «My city of ruins» (introdotta come la canzone «nelle cose che rimangono con noi per sempre» dopo aver presentato tutta la band, il boss omaggia i suoi due amatissimi spettri Clarence Clemons e Danny Federici: «Manca qualcuno ma posso sentirli nelle vostre voci», e parte un urlo del pubblico che avrà fatto cadere tutti gli strumenti lassù oltre le nuvole. E che dire del regalo per i fan italiani di una torrenziale «E street shuffle» che riascoltata oggi pare un film di Scorsese? O di altre pagine di pura nevrosi post-adolescianziale come «The promised land», «Candy's room» o «Darkness on the edge of town» di quell'album meraviglioso di quando il futuro era un rebus ma ci si poteva confidare? Eccola ancora intatta quella rabbia, generazione dopo generazione. La sfida tra chi era nato per correre e chi è destinato a rimanere al palo. La struggente desolazione per voce e piano di «The promise». Ma anche i bambini portati sul palco per il ritornello di «Waitin' on a sunny day». E il ballo finale come 27 anni fa di «Twist and shout». Allora magari ce la facciamo. Anche se i tempi cambiano Bruce resta. Eccome.

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