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Quel pathos giovanile che strappa applausi

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Ilsuo merito maggiore è una concisione irrorata di cantabilità generosa e nobile. Proprio per questo Muti e Pizzi lo hanno scelto per questa nuova produzione sul palco dell'Opera. Il tentativo è quello di una riabilitazione dell'implacabile Re degli Unni. La incoraggia la musica di Verdi, che ne fa un potente dal volto umano assalito da dubbi, sgomenti e paure. In effetti Attila (in scena sino al 5 giugno) è il simbolo vivente della solitudine del potere, anticipando Filippo II (Don Carlo): al centro di intrighi è attorniato, proprio come nella scena finale che ricorda l'uccisione di Cesare, da traditori come il generale doppiogiochista Ezio, l'ingrato Foresto e l'ipocrita Odabella, novella Giuditta. Nulla più insomma di barbarico, di muscolare, di leopardato come nella tradizione. La lettura tagliente e chiaroscurata di Muti rende intatto il pathos drammatico in un ambiente corrusco e plausibili la sfilza di cabalette. Lo segue a ruota il regista Pizzi che firma anche le scenografie: una volta a botte imperiale, talora sormontata da un praticabile, che diventa di volta in volta accampamento unno, cripta paleocristiana, tenda regale. Coloristicamente la messinscena vive di luci cavernose e di colori simbolici per i costumi. Nel cast svettano la Odabella di una travolgente Tatiana Serjan, già indimenticabile Lady Macbeth, e l'Attila perentorio ma fragile di Ildar Abdrazakov. Si difende bene nelle asperità del ruolo tenorile il Foresto di Giuseppe Gipali, buona la prova anche di Nicola Alaimo (Ezio) nonostante la recente indisposizione. Ottima la presenza del coro, poco incisive, anzi insignificanti le danze. Alla fine applausi trionfali al maestro e agli interpreti. Lorenzo Tozzi

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