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Attila shakespeariano

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Il poco noto melodramma di Verdi evoca le truci atmosfere del Giulio Cesare inglese

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MaAttila, portato per la prima volta sulle scene alla Fenice di Venezia il 17 marzo 1846 con un libretto di Temistocle Solera poi ritoccato da Piave, non è, insieme al Macbeth (1847), opera trascurabile. Già Verdi, entusiasta della mediocre tragedia di Zacharias Werner in stile Sturm und Drang per la delineazione dei caratteri e la possibilità di allusioni patriottiche, lo trovava un «soggetto stupendo» con quattro stupendi caratteri e si attendeva molto dalla partitura da lui composta. Ma il maestro di Busseto raggiunse anche una sorprendente brevità e una concisione per non sovraffaticare i cantanti impegnati in altre contemporanee produzioni. La malattia di Verdi ritardò la «prima» veneziana, ma consentì ulteriori approfondimenti (l'opera fu stesa in due mesi, ma la gestazione era durata ben più della stesura) come ad esempio l'esame degli affreschi delle Stanze di Raffaello con la scena dell'incontro tra Attila e Papa Leone (nell'opera prima incubo e poi fatto reale). L'opera vive tutta del contrasto dei quattro caratteri principali: Attila il capo unno, la vergine guerriera Odabella che vuole vendicare i familiari uccisi, il cavaliere Foresto, di lei innamorato e il generale romano Ezio. Attila si innamora ben presto della amazzone Odabella, unica donna in scena ma più virile di tutti, che per entrare nella sua fiducia sventa persino un tentativo di avvelenamento. Al contrario di una certa critica (lo stesso Mila sottolineava in quest'opera verdiana una certa «carenza melodica» e una scarsa eccellenza nelle arie solistiche) sia Muti che Pier Luigi Pizzi, artefici della sua rinascita sono ben convinti della validità dell'opera e vi sono tornati al lavoro più volte negli anni passati sia alla Scala che al Metropolitan o al Maggio musicale fiorentino. A sottolineare la concisione dell'opera hanno concentrato il prologo e i tre atti in due sole parti con un solo intervallo. La storia della rivalutazione di questa giovanile opera verdiana passa dunque per vari capitoli, di cui quello romano sarà certamante uno di quelli decisivi. Alle arie solistiche si oppongono il bel concertato del secondo atto, degno della maestria mozartiana (Leone ricorda un po' nella scrittura vocale l'apparizione del Commendatore del Don Giovanni) e il grande finale, asciutto ed efficace della congiura. Alla poca fortuna iniziale dell'opera giocò un elemento sfavorevole: un colpo di vento spense le candele, immergendo il pubblico in una insopportabile puzza di sego. Tuttavia Verdi la riteneva «non inferiore alle altre sue opere» sin lì composte e sarebbe stato il tempo poi a decidere il suo effettivo successo. Fu almeno riconosciuto dal Gatti che si trattava di una delle «espressioni più schiette dell'arte verdiana» di una bellezza torbida ma irresistibile. Per alcuni versi addirittura shakespeariana. La fortuna e rinascita di Attila sono dunque affidate in buone mani, a un direttore d'eccellenza verdiano per elezione, che ne ha fatto spesso una sua bandiera, e un raffinato regista che ha il gusto della essenzialità e del gesto simbolico. Come dire che Attila rinasce a miglior vita anche critica.

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