di Lidia Lombardi Odia le parole di plastica, la lingua svuotata, il crepuscolo degli «dei» che hanno illuminato l'Italia.
AurelioPicca è un fiume in piena, il giorno dopo la presentazione del suo nuovo romanzo al Salone del Libro di Torino. Si intitola «Addio», è un viaggio negli anni Sessanta con protagonisti che intrecciano le proprie storie. Gente ruspante, che vive a Roma, la periferia, i quartieri nuovi. Gente che lavora con le mani e con le mani si diverte. Il biliardo, la chiacchierata al bar. Gente con le facce entrate nei quadri di allora - Franco Angeli, Schifano. E nelle canzoni di allora, Morandi o Claudio Villa, l'omega e l'alfa dei nostri ultimi anni Ruggenti. Il racconto è nostalgia, la lingua è un motore sempre in corsa, con ondate di sentimenti e immagini mai mediate dall'intellettualismo. Picca, un'altra ode all'Italia che fu, questo «Addio». Come lo è stato il poemetto dello scorso anno «L'Italia è morta Io sono l'Italia». Non faccio che scrivere l'autobiografia. L'Italia è la mia autobiografia. Racconto senza il filtro della sociologia, della politica. Luca Doninelli l'ha definita scrittore epico. Dice che conosco tutto dell'Italia. E infatti sono cose che scrivo da trent'anni. Nella mia testa i personaggi hanno vita autonoma, si muovono da soli negli anni Sessanta. Un periodo che sembra lungo proprio perché è epico. Ma in questo amarcord, anzi "me ricordo" visto che lei è cresciuto ai Castelli concedendosi quotidiane scorribande capitoline, non c'è il rischio di sentirsi superato? Il contrario, sono proteso al futuro. A partire dal titolo del mio romanzo. "Addio" viene dal romantico A Dio, e penso a Foscolo. È lo struggimento che significa ti lascio e soffro, ma per rivederti, e dunque incuneandomi nel domani. L'Italia ha un secondo Novecento intriso di vitalità. Sogno a cinquant'anni che possa tornare quell'Italia. Così sono fedele alla mia innocenza, che è anche quella dell'Italia di allora. Non c'è ripiegamento, non c'è tristezza. Anche il linguaggio è funzionale a questa energia. L'ho plasmato ancorandolo alla tradizione. Ma moderno, cinematografico. Eppure sono gli anni d'incubazione del terrorismo. Della malavita che si fa feroce. Tra le pagine più belle, narrate come un cronista straniato, brechtiano, quelle sulla rapina mortale ai fratelli Menegazzo. E quelle della violenza su un bambino, Ermanno Lavorini. È uno spartiacque, l'introduzione del male in un Paese fino ad allora, come me, innocente. Ma fatti e personaggi non sono mai sopraffatti dall'idea di fine, di morte. Ho voluto disegnare gente carica di vitalità. Che ha carne e ossa. È questa la sua rivoluzione nell'impasse di oggi. Guardi, gli italiani di mezzo secolo fa avevano una carica interiore animale, nel senso di innata. Così come l'eleganza era innata, perché senza mediazioni. I muratori non erano pezzenti, si giocavano a biliardo anche la carta da 50 mila lire. Vestivano alla Visconti, le polo abbottonate fino al collo. Sognavano e poi alla fine qualcuno si comprava la Giulietta, la Fulvia. Per imboccare poi la mitica Autostrada del Sole. Lei fustiga la fissazione dell'apparire, che ha sostituito l'essere. Già, questa Italia dove è elegante chi veste firmato. Ma le ricordate Françoise Hardy, Silvie Vartan? Indossavano una magliettina e via. Avevano lo stile del corpo, del movimento. Anche il dolore era dolore. «Era il tempo - scrive nel primo capitolo - in cui ai funerali non si battevano le mani». Una cosa che odio, specchio della voglia di fare comunque spettacolo, di svuotare di senso ogni avvenimento. Odio per lo stesso motivo certe parole. «Salve», per esempio, Appiattito sul linguaggio medio, mi ricorda lo zerbino che si compra al centro commerciale. O «Buona serata». Buona serata che? Io non faccio serate, vado a dormire, guardo il cielo. Amo che mi si auguri «buona sera». Ci sono molte canzoni, in «Addio». Vale lo stesso discorso del linguaggio. Nell'epoca di cui parliamo non c'era uno che non cantava. Una sfilza di cantautori fantastici. E di artisti fantastici, da Adamo ad Alvaro Amici, quello che cantava in romanesco ai matrimoni. Ma lei, Picca, che formazione politica ha? Mio nonno, proprietario terriero col mito dell'onestà, era repubblicano, anticlericale e ferocemente anticomunista. Mio padre l'ho perso troppo presto. Mia madre, cristiana, libera, levantina. Il suo secondo marito, uno staliniano di ferro. E io? Mi guidano i fari del cristianesimo e dell'onestà. Le sue tavole della legge? Ho un'incrollabile fede: ci possiamo salvare se torniano alla comunità, alla famiglia. Se ci riuniamo a parlare di cose semplici, se torniamo a fare cose normali. Se torniamo a mettere nel piatto una zuppa di pane con sopra l'uovo. A indossare una camicia bianca, quella di due anni fa. Ci salveremo così? L'Italia si può salvare come si farebbe dopo un disastro nuclare. Si ricominci da zero, dalla poca erba che rimane nelle campagne. Dalle nonne che insegnano alle ragazze come fare la pasta. Non è mica un pensiero proletario e retrivo, è un pensiero di rinascita. Gira il programma anche ai politici? Sì, perché sono schiavi dei falsi problemi. Cianciano didì e didù, Napolitano è arretrato a fissarsi su Grillo. Si misurino sui fatti che suonano, non sulle fantasticherie. I fatti dicono che siamo in recessione. Macché. Siamo ricchi, viviamo nello sfarzo del nostro territorio. La conferma ce l'ho ogni mattina, quando mi sveglio e dalla mia finestra vedo il Circeo. Quando percorro la strada verso Terracina, e guardo i monti Lepini che cambiano pian piano colore. Altro che le Maldive. Lei scrive libri, frequenta editori. Che pensa dei premi letterari? Che se li giocano gli editori, non gli autori. Invece sarebbe carino che tornassero loro alla ribalta. Che rubassero la scena novelli Pampaloni, Pasolini, Baldacci, Bassani, Cassola. Penne così non ne se trovano più. Né editori capaci di formare un vivaio, di non puntare sulle grandi vendite ma sulla scrittura. Altro che i manuali di cucina. C'era una volta la borghesia imprenditoriale che metteva i guadagni sui libri, sulla cultura. Olivetti e Mondadori fecero così. Lezione improbabile ora. Non è moralismo. È l'etica del lavoro. Che tu sia uno stagnaro o un industriale, devi guadagnare. Ma solo dopo un lavoro fatto bene.