Belli-don Giovanni In rima il catalogo delle donne
Amore e morte, gioventù e vecchiaia Il poeta di Roma tra sesso e malinconia
Ècome un burattinaio che muove personaggi e non fa autobiografia. Accorto poi a non eccedere nella critica al Santo Padre, e comunque ben temprato dalla disciplina della Curia. Sicché i «Sonetti erotici e meditativi» che Adelphi riunisce sotto la cura del massimo studioso belliano, Pietro Gibellini, possono davvero alternarsi perché sor Gioachino racconta come va er monno, consapevole che il sesso è un motore che romba quanto la fame e che comunque a differenza della fame garantisce la continuità dell'esistenza. In realtà il poeta - che visse il crepuscolo del Papa Re e lo choc della Repubblica Romana - dei suoi due/trecento componimenti licenziosi preferì tacere, per paura della censura. Però sperando che prima o poi venissero alla luce. E infatti quando fa testamento e dispone che tutti i suoi autografi vengano distrutti, li consegna tuttavia a monsignor Vincenzo Tizzani, di liberali idee, intendendo però, come l'esegeta Giorgio Vigolo suggerisce, un «ti affido questi sonetti da bruciare perché tu me li conservi». Così qualcuno di essi entra nell'edizione postuma delle Poesie inedite, curata dal figlio nel 1865 con l'accortezza di mettere i braghettoni a certe espressioni scurrili (minchione a posto di cojjone, per esempio). Per poi squadernarsi senza veli nel 1870, quando i piemontesi si prendono Roma e i conventi. Ebbero successo, anzi appiccicarono al Belli l'etichetta di poeta licenzioso. E invece lui, come avverte nella introduzione dei Sonetti, giustifica così la scottante produzione: «Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e io lo ricopio». Ricopia l'antinomia che soprattutto sotto ar Cuppolone attorciglia le giornate: il sacro e il profano. Sicché allo stesso modo nel quale al Carnevale segue la Quaresima, a un coito - all'ombra di un semanticamete ammiccante Culiseo - segue il segno della croce. Il poeta piega il romanesco in una fantasmagoria di doppi sensi. E sghignazza quando due amanti chiusi in casa fermano il climax dell'ardore, si inginocchiano e ricevono dal Papa, in processione, la benedizione del Giovedì Santo. Non c'è autobiografia, si diceva. Gioachino non corre appresso alle gonnelle, anche se le donne gli piacciono. Ma insomma, la sua vita scorre proba, se non fosse per l'immaginazione, che indulge all'alcova. Simile a Dante - nota Ghibellini - considera la lussuria «come il meno grave fra i peccati». Molto peggio dell'usuria, come la chiama con deformazione semantica, l'usura, i soldi a strozzo. Il sesso è una macchina vitalistica e gioiosa, in questo sonetto onomatopeico: «Che sscenufreggi, ssciupi, strusci e ssciatti!/ Che ssonajjera d'inzeppate a ssecco!/ Iggni bbotta peccrisse annava ar lecco:/ soffiamo tutt'e ddua come ddu' gatti./ L'occhi invetriti peggio de li matti:/ sempre pelo co ppelo, e bbecc'a bbecco./ Viè e nun vienì, fà e ppijjia, ecco e nnun ecco;/ E dajjie, e spiggne, e inarca, e strigni e sbatti...». Di autobiografico invece c'è la riflessione che tanto vitalismo è destinato a declinare, che l'ardore si spegne infine e soggiace alla legge della vanitas. S'insinua il tema romantico di Eros e Thanatos. Il tempo che passa indica con il dito scheletrico l'ultimo giaciglio. Addirittura, uno dei sinonimi del sesso femminile, è la sseportura. ««Er tempo, fijjia, è ppeggio d'una lima./ Rosica sordo sordo e tt'assottijjia,/ che gnnissun giorno sei quella de prima» è una terzina di «La monizzione». Ancora in «La golaccia»: «La morte sta anniscosta in ne l'orloggi/ pe ffermavve le sfere immezzo all'ora;/ e ggnisuno po' ddì: ddomani ancora/ sentirò bbatte er mezzoggiorno d'oggi». Inevitabile il rimando al mozartiano Don Giovanni, lo sciupafemmine simbolo di Eros e Thanathos. Il cascamorto di Belli però è popolano e curiale insieme, scurrile e devoto ne «L'incrinazzione»: «Sentime: dopo er Papa e ddoppo Iddio/ cquer che mme sta ppiù a ccore, Antonio, è er pelo...». Il sonetto si conclude con un leporelliano catalogo delle donne: «Trentasei maritate, otto zitelle,/ diesci vedove: e ll'antre che vvierranno/ stanno in mente de ddio: chì ppò ssapelle?».