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La dura legge di Rossella L'intrigo non paga mai

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«Amore è il mese più crudele» Condanna senza appello per i forzati del romanticismo

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Conquesta protesta Vittorio Alfieri senza aver letto Leopardi aveva già capito tutto, lui che poverino già alla tenera età di sei anni soffriva come un cane. Nella sua Vita scritta da Esso (un genio solo per il titolo) racconta che, innamoratosi perdutamente dei fraticelli del coro, a un tratto era tanto avvilito da tentare ingenuamente il suicidio mangiandosi tutta l'erba del prato (secondo i suoi calcoli statistici doveva contare almeno un po' di cicuta). Ma il piccolo Alfieri era conscio che quel primo amore era un prodotto della sua fantasia. E così ci speculava sopra, deducendo che tutti gli amori “hanno lo stesso motore”. L'oggetto voluto è un ricettacolo d'aspettative, un mulinello mentale azionato di sana pianta dagli innamorati dell'amore. Visione romantica e obiettività fanno un frontale, le acque si confondono, giusto e sbagliato s'impaludano in un eterno dubbio. Cultura alta e canzonette concordano nel connotare l'amato con espressioni ossimoriche, Eros e Thanatos, odi et amo, vattene amore, ti amo o ti ammazzo, che non sono manifestazioni schizoidi ma definizioni rigorose. Oltretutto, quel che piace non lo si può mai spiluccare da un vassoio, si cerca il brivido di ripercorrere tutta la filiera, chissà per quale masochistico motivo. A ricamare, come una paziente zia, su questo groviglio di contraddizioni è Barbara Alberti, che con il suo ultimo libro Amore è il mese più crudele (Nottetempo) si conferma grande sarta delle trame passionali. Stavolta s'addentra negli orditi sentimentali per eccellenza, quelli delle grandi affinità elettive della storia e del romanzo. Dove, come da manuale, infuriano gare a farsi male, invidie, autoinganni, caricature e autocaricature. Questo succede nella storia tra Gabriele D'Annunzio alias Giorgio e Barbara Leoni alias Ippolita. Il cui unico amore possibile è il trionfo della morte, perché la presenza fisica è d'ingombro. Ma ci casca in pieno anche il poeta Vladimir Majakovskij, che ama la Cvetaeva “con profondo dispetto”. Lei è un elemento inassimilabile, arrivata a sparigliargli tutti i piani, “quella sfrontata”, una “bruna di ventisette anni, tutto spirito”, che lo corteggia “come un uomo corteggia una donna”. Il loro amore è un duello a suon di rime apodittiche, un'orgia intellettualistica, una superfetazione di astrazioni, l'Armata zarista contro l'Ottobre, Bianchi contro Rossi, Europa contro Russia, ma sotto le bandiere c'è l'incapacità reciproca di conquistarsi. Ovunque c'è ben poca realtà. L'innamorato è parente stretto del teologo nel suo tic consolidato di spiritualizzare il distante. Un rifiuto inaspettato, e una creatura di carne è subito trasformata in divina musa. Lo sanno bene le gattamorte, esperte nell'arte di sparire e riapparire solo quando l'amante le ha sublimate, adornandole di tutte le perfezioni. Questo fece la marchesa di Pompadour, l'“irraggiungibile signora”, una che “sapeva attendere”. Capace di studiare qualsiasi messinscena pur d'irretire Luigi XV, per arruffianarselo si sorbiva pure le sue amanti, da “gelida illusionista”. La Alberti assiste questi casi troppo umani spiandoli dallo specchietto retrovisore, seguendoli nella loro miopia logico-strategica, motteggiandoli nella loro illusorietà, ma sempre restandone amica partecipe. Se la prende un po' con la stupidaggine di Rossella O'Hara. Un superego viziato, tutta pose à la Bovary, fastidiosa con la sua ennui e il suo desiderio dell'impossibile, nel caso di specie il già sposato Ashley. “Oh, Ashley!”. Già quell'oh davanti è sintomatico dell'inflazione d'idealità. Ed è grave quando il reale c'è, ed è un Rhett - Clark Gable servito on the rocks. Un uomo bellissimo, e anche ironico. Chiedendole di sposarlo, le promette “il più grosso e il più volgare anello di Atlanta”. Una sana di mente si sbellicherebbe, e non se lo lascerebbe scappare. Ma lei invece no, perché vuole quello già occupato, voluto perché occupato, la solita bolla di sapone del triangolino amoroso gonfiata e rigonfiata dall'ostacolo. Bolla che alla fine scoppia, e il quarto incomodo Rhett, invece di raccoglierne i brandelli, francamente se ne infischia, e come dargli torto. Si sapeva, ma per l'ennesima volta s'appura che dalla macchinazione passionale si capitalizza poco. Anzi. Per tener fede all'iperbole romantica se va bene si diventa monaci, se va male va a finire col suicidio. Ad avvertirci dei pericoli dell'amour-passion si sbracciano scienza, medicina, economia domestica, più un esercito di personaggi mitologici e letterari caduti in disgrazia a suon di mele, pozioni, delitti, castighi e gironi infernali. Conclusione. Se s'avvistasse all'orizzonte un Rhett, il consiglio (spassionato) è solo uno: fargli un fischio, prima che se ne infischi.

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