Trieste, città di miti e misteri
Il protagonista usa il lavoro come copertura per fuggire (invano) dal suo mondo nostalgico
Stavaandando al Museo Revoltella per vedere un quadro, dopodiché sarebbe partito. Ogni volta che si trovava a Trieste pensava di restarci, ma poi succedeva qualcosa e doveva ripartire, senza mai sapere quando e se sarebbe tornato. Sperava sempre di fermarsi, di trascorrere giornate tranquille dedicate soltanto a leggere e a passeggiare. La sera avrebbe preso l'aperitivo con Stella, poi una cena veloce in trattoria. Così sognava di vivere e invece doveva sempre correre, accorrere, andare altrove, prendere treni, aerei, cambiare alberghi, telefonare. Passavano gli anni, che svanivano come bolle di sapone, e a Hortiz rimanevano impresse pochissime cose. Anche le donne finivano per essere fotografie sfumate di ricordi lontani, momenti evaporati. Stella gli piaceva ancora? L'aveva salutata agli Specchi mezz'ora prima; come sempre lei aveva bevuto un Campari soda, lui un succo di pomodoro con molto limone. Avevano parlato in quel modo triste, falsamente allegro, di chi sta di nuovo per lasciarsi e non sa quando si rivedrà. Il loro era uno di quei rapporti sospesi, malinconici, dove il ritrovarsi è imbarazzante e il lasciarsi un'abitudine. Come era complicato chiamarsi Hortiz, essere così evidentemente triestino, ma via da sempre. Via da quel mondo di greci, serbi, ebrei, cattolici. Via da quelle strade ordinate, pulite, popolate dai miti letterari del passato. A New York, dopo la guerra, Hortiz aveva scelto di fare il fotografo per pigrizia, per facilità. Era stato Libermann, un ebreo emigrato lì in seguito alle leggi razziali, ad aiutarlo a guadagnarsi da vivere con la fotografia di moda, poi divenuta la sua professione. Era diventato uno dei tanti bravi, ma non bravissimi, fotografi e aveva rinunciato a scrivere e a vivere di letteratura, di studi irregolari, di amici e di litigi. Aveva rinunciato ad essere un uomo colto, influente solo grazie al suo sapere. "Chi ha detto che Bacon è un grande pittore, ma non un genio?" "Lo ha detto Giorgio Hortiz." "Ma quando?" "Sai, ero a Parigi da Gallimard e l'ho sentito dire. Forse da Kundera." "Già, in fondo ha ragione Hortiz, Bacon è sopravvalutato." Ecco il genere di uomo che avrebbe voluto essere, invece si era guadagnato da vivere facendo per anni il fotografo di moda. Poi si era sposato con Teresa, una donna ricchissima e capricciosa, e stupidamente aveva lavorato meno. Rispetto a Penn o a Avedon, aveva perso il treno. Teresa lo aveva riportato in Europa, a Parigi, dove si era immalinconito e aveva cominciato a bere. Parigi era diversa da New York. Non era una città di emigranti, non c'era quella solidarietà tra profughi o figli di profughi, ma una vita di società mondana, ripetitiva. Però lì la sua esistenza era cambiata. Aveva capito che Teresa non gli piaceva più: era troppo magra e longilinea, mentre lui amava le donne piccole, con le gambe e le braccia non molto lunghe, la pancia e il sedere pieno. Così si era incapricciato di Anne-Marie, una ragazza bionda, slavata e soffice, che parlava poco, rideva sempre e aveva la pelle e le labbra dolci, morbide. Gli piaceva baciarla e accarezzarla e accanto a lei si sentiva tranquillo, gli sembrava che la vita fosse più serena. Erano andati ad abitare in rue Madame, vicino ai giardini del Lussemburgo. Lui aveva ripreso a fare fotografie, lei lavorava da Dior. Intanto Hortiz era stato contattato dai servizi segreti americani. Avevano saputo che parlava italiano, tedesco, sloveno, serbo, croato e capiva il russo. Sapevano anche che era triestino, e il suo lavoro di fotografo era una perfetta copertura, un alibi per introdursi in certi mondi. Tra l'altro Anne-Marie era francese, di Aix-en-Provence, e aveva vissuto in Marocco. Tutto perfetto per un'attività di spionaggio. E così in quei giorni Hortiz era tornato a Trieste, dove aveva una sorella che insegnava latino e greco al liceo. Anne-Marie non lo aveva accompagnato e lui, come già altre volte, aveva rivisto Stella, un amore di gioventù. A Trieste, Hortiz aveva dei contatti per il suo lavoro di spionaggio. Grazie al metropolita del Montenegro conosciuto a Parigi, aveva creato una base di informatori che gravitavano attorno alla chiesa serba, che gli serviva per alcuni scambi con Belgrado. Nel frattempo a Parigi, per non suscitare sospetti, continuava a fare il fotografo. Per giustificare i suoi continui viaggi a Sarajevo, in Afghanistan, in Iraq, in Israele, in Africa, si era specializzato in reportage di guerra. Quella mattina, a Trieste, Hortiz aveva ricevuto una telefonata: doveva partire subito per Gerusalemme, dove si sarebbe tenuto un incontro segreto tra i leader israeliani e un emissario americano. Hortiz chiamò Anne-Marie a Parigi per sapere se lo avrebbe accompagnato. Lei stava seguendo la sfilata di Dior, ma gli disse che presto lo avrebbe raggiunto. Dopo qualche giorno di assenza Anne-Marie gli mancava, aveva bisogno di sapere che lo amava, sentirsi dire: "Ti adoro." In quel "Ti adoro" non c'erano dubbi, sfumature, era tutto chiaro, semplice, assoluto. E così, di lì a poche ore avrebbe lasciato Trieste per Gerusalemme, dove sperava che arrivasse Anne-Marie profumata di Mitsouko. Ma che senso aveva buttare via la sua vita in quel modo? E dire che avrebbe potuto stare a Trieste, lavorare seriamente, scrivere qualcosa di importante, ogni tanto rileggere Svevo. Avrebbe voluto essere un grande romanziere, come Proust o Joyce, ma se non lo era diventato era perché non aveva talento. Prima di andare via, Hortiz aveva bisogno di rivedere quel quadro al Museo Revoltella. Era il ritratto di un gentiluomo dell'Ottocento che si diceva fosse un suo antenato. Continuava a sentirsi confuso, ma perché? Perché nella sua vita si erano accumulati troppi segreti ed era stanco. Stanco di dover sempre partire. Certo, gli piaceva pensare che presto avrebbe tenuto tra le mani la pancetta di Anne-Marie, che avrebbe sentito il sapore dei suoi baci. Eppure, alla sua età, non sapeva ancora cosa voleva dalla vita, non sapeva ancora da che parte stare. Avrebbe potuto sposare Anne-Marie, chiederle di lasciare il lavoro da Dior, ma poi? Cosa sarebbe cambiato? Avrebbero potuto vivere dalle parti di Bayonne, trovare nuovi amici. Ma se avesse lasciato i servizi segreti sarebbe stato degradato, non avrebbe più avuto contatti con personaggi importanti, avrebbe perso certe amicizie, certe abitudini. Avrebbe dovuto rinunciare al suo potere occulto e forse lo avrebbero fatto uccidere, dal momento che la sua defezione sarebbe stata interpretata come un tradimento. No, non avrebbe mai potuto fuggire: lo avrebbero rintracciato ovunque, prendendosela con Anne-Marie e con Stella. Quello che Hortiz non sapeva, però, era che entrambe lavoravano come lui per i servizi e per il suo stesso capo. Nemmeno loro sapevano di lui, la verità sarebbe emersa soltanto qualche anno dopo. La morte misteriosa di Stella, rinvenuta vicino alla spiaggia. La bora era stata molto violenta quella notte, ma non sarebbe stata una spiegazione sufficiente... Solo alcuni anni dopo, ad Antibes, dopo essere stati entrambi congedati, Hortiz e Anne-Marie finirono per sposarsi in municipio, una mattina soleggiata di novembre. "Non mi porti in viaggio di nozze?" gli chiese lei. "Dove vorresti andare?" "A Trieste." "E tu dove vorresti andare?" "Ad Aix-en-Provence." Finirono invece per andare a Bayonne, dove comprarono una casa e vissero tranquilli. Hortiz scrisse qualche romanzo di spionaggio con un discreto successo. Ebbero una bambina, Stella, che avrebbe studiato storia dell'arte e molti anni dopo sarebbe diventata la curatrice del Museo Revoltella a Trieste. Un giorno avrebbe scoperto il ritratto di un gentiluomo triestino dell'Ottocento identico a suo padre, Giorgio Hortiz.