di Lorenzo Tozzi Potrebbe ormai dirsi Civis romanus.
Ieriè stato sul podio della Chicago Symphony, l'11 maggio dirigerà il suo terzo concerto dinanzi ad un Papa, poi a fine mese l'Attila di Verdi all'Opera. In che modo «vive» Roma? L'ho sempre amata. Da ragazzo mi piaceva citare Orazio. Non è un'opinione, ma un dato di fatto riconosciuto da millenni. Questa città non è solo un museo vivente. Ho legato il mio nome all'Opera che merita un'attenzione per anni negata per ragioni spesso ingiuste. Si attaccava Roma perché era in alto, ma era un attacco dannoso e ingiusto. La storia non è solo quella relativamente recente del Costanzi, ma è ben più lunga e i Teatri romani ancora esistenti meriterebbero di essere presi in considerazione come il Valle. Roma è bella e ha una grande storia, una città unica. Come vede la situazione della lirica in Italia? Molto cambiata. I grandi direttori che erano la colonna portante dell'opera in Italia e nel mondo non ci sono più per un fatto anagrafico. Quando nel 1968 sono diventato direttore al Maggio, ho passato i primi anni vicino a Vittorio Gui, che veniva dalla tradizione ottocentesca dei Faccio, dei Mugnone, dei Mancinelli attraverso Toscanini. C'era identità nazionale e operistica. C'erano Santini, Votto, assistente di Toscanini, Gavazzeni. Da loro il mondo imparava l'opera italiana. Molti venivano dalla polvere del palcoscenico. Oggi dirigono una sinfonia di Mozart o Brahms e poi passano a La Bohème senza sapere nulla di palcoscenico, di voci, di regia. La regia ha preso il sopravvento perché il direttore ha sempre meno influenza. Verdi ha lasciato annotazioni registiche su Aida, Otello, Simon Boccanegra. Vedeva una regia basata sul discorso musicale. Oggi la regia è spesso avulsa dal discorso musicale. Spesso il regista usa la musica per fare tutt'altro. Perché ha scelto un'opera né popolare né proprio rara come l'Attila? Perché amo tutto Verdi. Non esiste un Verdi maggiore o uno minore. Ogni opera contiene il germe di ciò che segue. L'ho fatta a Firenze, alla Scala, al Met. È un'opera affascinante del primo Verdi, un omaggio all'Italia. Ezio dice: «Resti l'Italia a me». È il grido di un musicista che sta contribuendo alla nascita di una nazione. Come l'incontro tra Papa Leone e Attila prelude all'incontro tra Filippo e l'Inquisitore. L'«un pa pa» di Verdi è scritto come abbellimento del fatto musicale. Sta al direttore non abbandonarsi a un accompagnamento che può apparire volgare. Un grande orchestratore come Mahler amava il primo Verdi. Perché? Verdi parla agli uomini dell'uomo, dei suoi sentimenti, delle sue passioni, delle sue tragedie, di quello che si nasconde nell'anima umana. Di lui D'Annunzio ha detto «Diede una voce alle speranze e ai lutti. Pianse e amò per tutti». Meglio non si potrebbe dire. Wagner insomma abbaglia, ma Verdi commuove. Qual è la principale dote di un direttore d'orchestra? L'orchestra è uno strumento complesso, fatto di persone pensanti, musicisti che spesso ne sanno più del direttore. Chi sta sul podio deve saperli convincere della bontà della sua interpretazione. Ci sono più interpretazioni, ma in quel momento quella scelta deve coinvolgere tutti. Il direttore deve avere bagaglio tecnico, un concetto del suono, conoscenza del fraseggio musicale, buon orecchio per stabilire i pesi sonori tra le varie famiglie orchestrali e controllare l'intonazione. Un direttore molto determinato passa per dittatore, ma non deve chiedere il parere dei musicisti. Adesso va di moda che siamo tutti colleghi. È vero, ma si è colleghi perché si lavora insieme: non si può abdicare al fatto che il direttore deve avere un'idea interpretativa e la deve saper trasmettere. L'Italia può vantare ancora un primato nella musica? Purtroppo no. L'Italia deve fare uno sforzo: dipende dalla scuola, dai Conservatori, dalla cultura. Invece del Paese della storia della musica si deve tornare ad essere il Paese della musica. Siamo indietro rispetto ad altri Paesi per mancanza di attenzione verso la nostra storia. Siamo famosi al mondo per la nostra musica. In America ci sono migliaia di orchestre: Chicago, Filadelfia, Boston, Cleveland e New York sono le cinque grandi sorelle, poi tante altre sino alle Community Orchestras che vivono al di fuori della città fatte da giovani e pensionati che hanno la loro stagione. Da noi le orchestre sono poche. È cresciuta la qualità per la volontà di tanti giovani di non essere lasciati per strada. Abbiamo bisogno di più teatri e più orchestre. La musica deve essere fattore fondamentale della preparazione culturale di un italiano. La rivalità culturale tra Roma e Milano può essere di qualche utilità? Siamo stati sempre per i dualismi. Se rivalità significa tensione verso un miglioramento di se stessi, è positiva, quello che diventa malattia è fare il lavoro guardando al rivale. La globalizzazione giova alla musica? In natura non c'è la globalizzazione, che porta tutte le cose ad essere eguali. Non c'è un albero che è eguale ad un altro. Sono per la identificazione della individualità di ogni cosa. La globalizzazione andrà avanti, ma fa male alla musica, che è libertà espressiva e non va incasellata. Come vede il futuro del Bel Paese? Non posso dare un giudizio, ma sono un italiano nel senso vero. Non sono di quelli che si vergognano di essere italiani o all'estero fanno appelli. Io sono orgoglioso di essere italiano. Trovo che il mio Paese rimane un grande Paese anche se con mille problemi. Confido nelle capacità degli italiani che stanno attraversando un momento fortemente tragico anche perché la televisione con programmi demenziali non contribuisce alla crescita delle nuove generazioni. Oggi tutto diventa spettacolo, anche il crimine. Non invoco un'Italia quaresimale, ma sono meridionale ed ho una mia idea del bello. La tv addormenta. Quale è il segreto della sua eterna giovinezza? Gli anni passano anche per me. Mio bisnonno si sposò a 68 anni, senza di lui non esisterei. Mio nonno morì a 98 anni. È un fatto genetico e alimentare. Non sono grande mangiatore né bevitore, ma vivo il mondo delle luci dello spettacolo come un outsider. Faccio il musicista, ma quando le luci si spengono, guardo al mondo delle luci da fuori, divento un cittadino normale. La riconquista ogni volta della «normalità» è importante. Sono un uomo, non faccio l'artista.