Noi donne orgogliose di Miriam
Ha attraversato come una «madre della patria» la Liberazione e la nascita dell'Italia repubblicana. Di parte, ma mai supponente
Madella gente di sinistra, anzi del Pci - il suo partito di gioventù, la sua «casa» - non aveva il difetto forse più grande, più respingente. Cioè non aveva la supponenza, la convinzione di essere razza superiore, che non sbaglia mai. Per questa schiettezza, e la capacità di criticare, quando ci voleva, l'ideologia comunista e chi nel partito sbagliava, oggi la salutano con rimpianto politici di differente generazione e diversissima casacca, come Casini, Polverini, Cicchitto, il sindaco Alemanno. Quest'ultimo sentendo la Mafai come illustre concittadina, visto che lei, giornalista e scrittrice, pur nata a Firenze 86 anni fa, era figlia di Mario Mafai e di Antonietta Raphael, fondatori negli anni Trenta con Scipione della corrente di pittori famosa col nome di «Scuola Romana». A spiegare come Miriam Mafai, che è sempre stata pervicacemente di parte, sapesse ascoltare gli altri e riconoscerne il buono, ecco il suo giudizio su Craxi, quello degli Anni Ottanta, «che era molto più avanti di tanti politici». Ed ecco, in uno dei suoi libri, «Dimenticare Barlinguer», del 1996, l'auspicio di «uscire in modo definitivo dalla tradizione comunista». E anzi l'affermarzione che «la parola comunismo mi crea un peso insostenibile, al punto che oggi non ripenserei più il comunismo come un valore positivo». Era la Miriam Mafai che aveva sposato il riformismo progressista espresso da «la Repubblica», il giornale che aveva contribuito a fondare. Era la giornalista che guardava oltre il suo partito, interessata alla società civile, al costume. Era la sostenitrice del mondo femminile e della sua emancipazione, la stessa che aveva diretto la rivista «Noi donne» dal '65 al '70 ma che non si sarebbe mai rinserrata nelle barricate estreme e di maniera del femminismo. «Come donne, nessuno ci ha regalato niente», disse una volta. C'era la consapevolezza di un ruolo troppo a lungo subalterno. Da rovesciare con l'impegno nel lavoro, con la dimostrazione dell'intelligenza femminile. Ma senza negarsi agli affetti, alle amicizie, ai figli, nipoti, pronipoti ai quali, ammise però senza rimpianti, s'era potuta dedicare molto di più che ai propri bambini. Una carriera lunga nelle redazioni, la sua. Ma venuta dopo la militanza politica, naturaliter a sinistra. La madre era ebrea e figlia di un rabbino lituano. Un'origine rivendicata con orgoglio da Miriam con un'adesione ancor più convinta all'antifascismo e alla lotta della Resistenza. Si iscriverà al Pci, ne diventerà un quadro, sposerà Umberto Scalia, uomo del partito inviato in missione a Parigi. Miriam comincia qui a scrivere per «Vie nuove», fondata da Luigi Longo. Tornata a Roma, madre di un bambino e una bambina, entra a «l'Unità» e diventa redattore parlamentare. È il 1961, il suo matrimonio comincia a scricchiolare. L'anno dopo si lega al leader comunista Giancarlo Pajetta. Unione irregolare (anche lui è separato) malvista dai «bacchettoni» del Pci, al pari di quella Iotti-Togliatti. «Dalle donne comuniste si pretendeva un grande rigore morale - raccontò la Mafai - Ma Giancarlo è stato l'unico amore della mia vita anche se né io né lui abbiamo sacrificato per questo pezzi della nostra esistenza». Insomma - ecco un'altra frase storica che spiega l'indipendenza senza aridità della Mafai - «tra un week end di passione con il mio Pajetta e un'inchiesta io deciderò sempre per la seconda». Del resto, dirà in un'intervista, «sapevo che lui, dovendo scegliere tra un pomeriggio con me e un comizio, avrebbe scelto un comizio. La politica era la sua passione, il giornalismo la mia. Eravamo alla pari». E così il giornalismo fu per la Mafai - dopo «l'Unità» - «Paese Sera» e soprattutto, dal 1976 «la Repubblica», che nacque anche grazie a lei. E dove scriveva non solo di politica, ma di come era l'Italia, la Repubblica che aveva visto nascere, da «madre della Patria» che in genere ha sempre e solo «padri». Nei suoi libri tirò fuori la visione complessiva del cambiamento della società e del distacco dal passato, compreso quello ideologico. Ecco, oltre a «Dimenticare Berlinguer» e nello stesso 1996 che segna l'arrivo della sinistra al governo del Paese, «Botteghe Oscure addio - Come eravamo comunisti» (entrambi Mondadori) e nel 2002 «Il silenzio dei comunisti», un dialogo con Vittorio Foa e Alfredo Reichlin. Era troppo indipendente, troppo critica invece per fare politica istituzionalmente. Oltre a una parentesi amministrativa a Pescara, Miriam Mafai si candidò a deputato del Pds nel 1994. Venne eletta in Parlamento ma lasciò dopo un anno. «Una cosa è dare le noccioline alle scimmia e una cosa trovarti dento la gabbia delle scimmie», liquidò così la questione e un lavoro con troppi vincoli di idee e di comportamento. Del resto, dice Giampaolo Pansa, che con lei lavorò a lungo a Repubblica, «è rimasta sempre un'eterna ragazza, un'anarchica libertaria. La cosa che ne ricordo di più è la risata: rideva come se fosse una ragazzina».