Chinaglia «motivazione antagonista» per vivere
Ilprimo pensiero è stato, chissà se ha fatto in tempo a leggere «Il talento della malattia» (Avagliano, 2012), il bellissimo e commovente romanzo autobiografico di Alessandro Moscè. Perché questo libro parla tanto di Long John, ma non del calciatore che ha fatto grande la Lazio o i Cosmos di Pelè. È nella dolorosa e dolce adolescenza di Moscè che Chinaglia ha avuto un particolarissimo ruolo decisivo. Conoscevamo l'autore come poeta sensibile e critico attento, e ora, dopo 30 anni di silenzio, ci racconta la sua storia. A 13 anni fu colpito da una grave forma di sarcoma di Ewing ischio-pubico, per cui la casistica clinica non lasciava scampo; i medici gli pronosticarono tre mesi di vita. Invece, dopo due anni di ospedalizzazione, ecco l'inspiegabile guarigione, che lo ha reso un vero "caso clinico" internazionale. Ma "a cosa si aggrappa il malato, a tredici anni?". L'autore avverte che "i bambini sanno tutto, quando presagiscono ( ). I bambini hanno fiducia, specie quando provano un infinito brivido". Moscè indaga, nella narrazione cruda e trepidante, "il lato psicologico e soggettivo della malattia". Opporre alla malattia l'indifferenza in virtù di una difesa: il bambino ne è capace". E per Moscè la "motivazione antagonista" era Giorgio Chinaglia. Al suo eroe sportivo pensava il bambino per allontanare l'ossessione della malattia; a lui ha scritto una lettera straziante dopo la morte di un compagno di ospedale. Fino all'incontro catartico, sul campo di allenamento a Gubbio, nel luglio '84. "Butta le stampelle. Voglio vederti senza la prossima volta, ok?", avrebbe detto Chinaglia al giovane Moscè in via di guarigione. La storia è tutta nell'infanzia, "un'età che trova la forza di sopravvivere nell'ossessione della memoria", "un'età che non invecchia". Di quell'infanzia Moscè è un reduce, che nel dolore riafferma tenacemente la vita. Vive la malattia come sofferenza e anche prova di ritrovamento di se stessi e nella malattia illumina gli archetipi dell'esistenza umana. Inoltre ci offre uno spaccato di quell'Italia provinciale ancora capace di sognare, di fare gesti coraggiosi, nell'ordinaria lotta di sofferenza e gioia. Gli scrittori veri, come certamente è Moscè, hanno il compito proprio di recuperare queste vicende, tanto normali quanto straordinarie.