di Lidia Lombardi I have a dream, potrebbe sussurrare il professor Monti in questi giorni di Passione.
Unoviene dalle collezioni dello stesso Palazzo Ducale (sede della Galleria Nazionale delle Marche), edificio-simbolo del potere di Federico II di Montefeltro, con opere del Sanzio, di Piero della Francesca, del Barocci, per dire qualcuno. L'altro dagli Usa, Baltimora, dove finì quando improvvidamente dalle collezioni ducali fuggì qualche capolavoro. Due dipinti analoghi, chiamati «La città ideale» (André Chastel coniò il titolo in un articolo dell'85 e definì Urbino incarnazione del Rinascimento matematico) al quale si sarebbe voluto affiancare un gemello, conservato a Berlino e negato - perché «malato» e dunque intrasportabile - agli ideatori della bella mostra, la sovrintendente delle Marche Lorenza Mochi Onori, l'ex sovrintendente Vittoria Garibaldi, e l'appassionato autore del progetto scientifico Alessandro Marchi. Tre capolavori tanto famosi quanto misteriosi. Non se ne conosce il committente, l'uso, il soggetto, l'autore. Qui le congetture sono svariate: Leon Battista Alberti (il «vero» ispiratore delle forme del Palazzo Ducale, secondo Marchi), Luciano Laurana, comunemente indicato come architetto della reggia urbinate. O Piero della Francesca, che suggerì al dux come proiettare la propria immagine nel Palazzo, autore di trattati di prospettiva dei quali le città ideali sono l'inveramento. Quanto all'uso, erano forse spalliere di «lettucci«, antenati dei divani, addossati alle pareti, vicino ai camini, buoni per il riposo breve. Ma il punto sostanziale delle tre tempere su tavola, il mistero dei misteri è il loro significato. Non rappresentano nessuno posto in particolare. Nel quadro «americano» c'è uno stilizzato Colosseo, un non meglio identificato arco trionfale, un battistero che ricorda quello fiorentino. In quello di Urbino, il tradizionale schema di città di tanti dipinti del Rinascimento, una piazza con al centro un tempio rotondo e una fuga laterale di due strade (come il Tempietto del Bramante nel romano San Pietro in Montorio e come in molte delle 50 opere in mostra, con prestiti da musei nazionali e internazionali, autori come Raffaello, il Perugino, Fra' Carnevale e oggetti diversi, dai cassoni di legno a tarsie di porte, da disegni a manuali matematici di architettura). C'è una sola differenza, ma a ben guardare irrilevante. Nella «Città» del Palazzo Ducale non compare anima viva. In quella di Baltimora camminano figurine umane. «Ma piccole rispetto agli edifici, e come giustapposte in un secondo momento», suggerisce Marchi. Piuttosto, si schiudono porte e finestre su sfondi neri, a suggerire l'idea dei morte, della vanitas umana, della fine. E poi a rilanciare l'idea di vita, di futuro, di Storia nelle piante che sporgono dai davanzali, che crescono sui terrazzi. La proporzione, l'armonia, l'aurea, matematica misura delle parti, la sospensione neoplatonica della veduta rimandano all'acme della razionalità, alla compostezza, al decoro che sono gli atout del buon governo, della saggezza del potere, della prosperità. Non a caso Federico di Montefeltro - l'illuminato signore - chiamò alla propria corte i massimi artisti del tempo, ché lavorassero senza imbrogli né liti. E volle un palazzo aperto al popolo, fin nelle forme, con la piazza che lo accoglie e il portone che si schiude per tutti, segno di condiscendenza e di partecipazione. Un'utopia realizzata nel ducato condiviso con la sua signora, Battista Sforza. Una perfezione che non durò più della vita del monarca mecenate, amministratore di giustizia, devoto, colto. La rassegna - costata un milione di euro e riuscita grazie alla collaborazione tra Mibac, enti locali, sponsor privati - contrappone anche la passione delle città medievali alla olimpica calma della città ideale. Fosse essa Urbino, o Pienza, o l'albertiana Rimini. Rappresenta, sottolinea Mochi Onori, «un momento filosofico e politico di equilibrio totale». C'è davvero, oggi, da incantarsi. E, chissà?, da imparare.