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di Carlo Antini Nei volti di Maria di Nazareth i lineamenti dell'amore, della dolcezza e della sofferenza.

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Dallaforza di Maia Morgenstern nella «Passione di Cristo» di Mel Gibson all'ambigua sofferenza di Verna Bloom nel provocatorio «L'ultima tentazione di Cristo» firmato Martin Scorsese. I registi che hanno provato a raccontare la storia della Sacra Famiglia e dei Vangeli hanno sentito il bisogno di sottolineare questo o quell'aspetto fisico o morale di Maria di Nazareth. Bella, dolce, forte, tenace, amorevole, vera, vissuta: ognuno di loro ha dato e tolto qualcosa a una delle figure più misteriose e venerate del Cristianesimo. L'ultimo in ordine di tempo è Giacomo Campiotti, regista di «Maria di Nazareth», la fiction in due puntate che andrà in onda domani e lunedì in prima serata su Raiuno. Più che a illustri precedenti, da «L'ultima tentazione di Cristo» di Scorsese a «The Passion» di Mel Gibson, Campiotti, racconta lui stesso, si è ispirato «ai Vangeli, riletti tutti in fila, e alle figure di donne mistiche come Catherine Emmerich. Le più belle immagini del film vengono da lì». A Maria che, come Gesù, nel film vediamo rappresentata in modo molto fedele all'iconografia popolare, «ho voluto dare la dolcezza, ma anche la consapevolezza, forza e coraggio quotidiani di una donna che ad ogni passo sa quello che sta facendo». A darle il volto sul piccolo schermo è la giovane attrice tedesca Alissa Jung, arrivata a ottenere la parte della protagonista dopo un provino a dir poco «sui generis». Come racconta lo stesso regista. «Avevamo già messo gli occhi su un'attrice francese - spiega Campiotti - quando ci è arrivato il provino di Alissa. La ragazza se l'è girato da sola, recitando alcune parti della sceneggiatura con una luce neppure tanto adatta. L'abbiamo fatta venire a Roma ugualmente e qui ho notato che era abbastanza diversa da come me la immaginavo. Alissa ha dato a Maria la dolcezza e la consapevolezza di una donna vera e profonda». La rivoluzione femminile di Giacomo Campiotti passa anche attraverso l'umanità di Maria che, forzando il racconto dei Vangeli, stringe perfino un legame di profonda amicizia con Maria Maddalena, interpretata sul piccolo schermo da Paz Vega. La dolcezza di Alissa Jung permea di sé l'intera vicenda. Al punto che Campiotti non la fa neppure invecchiare. La Jung è sempre uguale a se stessa, dall'Annunciazione dell'Angelo fino alla Resurrezione. Il suo volto non cambia col passare del tempo, come in un'eterna ieraticità che riporta alla memoria la fissità dei mosaici bizantini. Scelta profondamente diversa da quella che compì Pier Paolo Pasolini nel 1964, quando diresse «Il Vangelo secondo Matteo». Il regista bolognese optò per il racconto dei mutamenti anche fisici di Maria. Dalla ragazza angelicata dei primi anni di vita interpretata da Margherita Camuso fino alla disperazione dell'anziana che piange la passione e la morte di suo figlio in croce. Ed è proprio in queste sequenze che Pasolini mette in campo se stesso e la sua vicenda biografica. L'anziana Maria nella realtà è sua madre, Susanna Pasolini, scrittrice lei stessa, a cui Pier Paolo era profondamente legato. Qualche anno dopo, la dolcezza di Maria e la sua purezza sono state sottolineate anche dal volto etereo di Olivia Hussey, l'indimenticata protagonista del «Gesù di Nazareth» di Franco Zeffirelli. Lo sceneggiato televisivo è del '77 e, attraverso il volto della Hussey, voleva tracciare il confine tra le vecchie produzioni televisive e il futuro della fiction, sempre più in cerca della propria consacrazione anche al di fuori degli angusti confini nazionali. Ma è solo con gli ultimissimi anni che il volto di Maria diviene quello di una donna, con tutte le sue sfaccettature, le sofferenze e la vita vissuta anche attraverso le rughe. Bisogna aspettare il 1988 e il provocatorio e discusso «L'ultima tentazione di Cristo» di Martin Scorsese per vedere una Verna Bloom che mette sullo schermo le smorfie e la vecchiaia di Maria di Nazareth. Sebbene inserita nel più complesso discorso di Scorsese, la fisicità della Bloom consegna al pubblico una donna nata dalla riflessione sul senso stesso dell'essere madre. Il film è pieno di contraddizioni e, all'epoca, fu accolto da una scia di aspre polemiche. Nonostante il polverone mediatico, il regista riuscì a scardinare l'oleografia ereditata dai decenni di rappresentazioni che lo avevano precedeuto. Fino alla tempesta finale. Fino all'uragano di Mel Gibson che ha scelto Maia Morgenstern per descrivere la cruda sofferenza della «Passione di Cristo». Il sangue e le frustate inflitte al figlio di Dio fanno da contraltare alla sensualità di Monica Bellucci nei panni della Maddalena. L'odio e la violenza descritti nella pellicola sono il risultato di anni di rielaborazioni cinematografiche che passano anche attraverso i contributi di tanto cinema italiano. In tutto questo la Morgenstern riesce comunque a mantenere sempre intatta la sua forza e il suo sguardo severo parla più di mille parole. Gibson mette in scena tutta la passione e la verità di una donna che vive, ama e soffre attorno a suo figlio. Un'impennata d'orgoglio nel grande mistero della messincena e della Fede, nell'incessante ricerca del precario equilibrio con cui il cinema e la televisione tentano di raccontare, ciascuno con i propri mezzi, la storia delle storie.

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