La bacchetta di Muti strega la Capitale
Riccardo Muti si è internazionalmente confermato da tempo uno dei più grandi interpreti verdiani. Ma se c'è un'opera tra le tante che gli calza a pennello, questa è proprio il Macbeth per la sua straordinaria compattezza, per la sua unidirezionalità drammaturgia nel segno dominante di un destino, assecondato dalla sfrenata ambizione di potere dei protagonisti, che travolge tutto in una crescente scia di sangue e di delitti. Un pathos in cui Verdi si fa complice a Shakespeare e che Muti ha sempre saputo cogliere splendidamente. E dunque proprio Macbeth, non a caso, Muti ha scelto per inaugurare la stagione 2011-2012 del Teatro dell'Opera di Roma, casa in cui dimostra di sentirsi sempre più a suo agio (e Dio ce lo mantenga a dispetto degli ipercritici) e lo ha fatto grazie ad una sinergia collaborativa prestigiosa come quella con il Festival di Salisburgo. Le tre ore e mezza di musica filano via coma in un vero e proprio ingarbugliato thriller cinematografico per la sua capacità di tenere dietro agli altalenanti ritmi dell'azione, che mai ristagna ma solo a tratti si raffrena per poi addivenire a sempre nuovi e più sanguinolenti esiti sino al precipizio finale. Apprezzabile anche l'allestimento del tedesco Peter Stein, realistico e in stile d'epoca, senza fisime di avanguardismo o ideologismi fuori luogo, ma nitido nella lettura e quasi sempre condivisibile: realistico al punto da far apparire in carne ed ossa l'ombra dell'assassinato Banco laddove sarebbe forse bastato solo un semplice effetto luci. Alcune scene si stagliano tuttavia profondamente nella memoria, come quella dell'affollato banchetto con un lunghissimo tavolo ad attraversare interamente la scena o i due movimentati quadri delle streghe premonitrici, amorfe, smaniose intorno a tre attori incappucciati in bianco, che rimescolano sinistramente il calderone. Un errore invece aver rinunciato al balletto, espressamente voluto da Verdi dal suo librettista Piave, lasciando semivuota la scena. Dal punto di vista vocale il Macbeth non è opera sempre agevole: il tono di cupezza sinistra, di tragico abbandono alla fatalità conferisce un colore tutto particolare ai ruoli della coppia protagonista, dove Verdi, com'è noto, accentua la spinta progettuale della Lady omicida. E l'amore, tradizionalmente oggetto di qualsiasi melodramma borghese, diventa invece qui foriero di morte e di lutti, frammisto com'è con una ben cementata voglia di dominio e delirio crescente di onnipotenza. Dunque a Macbeth e alla sua Lady si richiedono toni di una passione perfida intessuta di ipocrisia, di falsità, di arrivismo sfrenato. A prestar fede al ruolo in questo lucido allestimento del Costanzi era soprattutto il soprano drammatico russo Tatiana Serjan (già applaudita a Roma ne La Battaglia di Legnano), vocalmente ineccepibile lungo tutto l'arco della vasta estensione richiesta dal ruolo della perfida ispiratrice dei delitti. Scultorea la scena onirica del sonnambulismo, applaudita calorosamente dall'uditorio. Forse la Serjan non possiede appieno lo spessore metafisicamente tragico del ruolo, ma almeno denota una sicura padronanza scenica. Più sfumato e poco incisivo negli alti e bassi della sua continua allucinazione omicida il Macbeth dell'uruguayano Dario Solari, incapace di differenziare a dovere le diverse temperature drammatiche del personaggio. Sanza infamia e sanza lodo gli altri interpreti come il Banco di Riccardo Zanellato, il Macduff di Antonio Poli e il Malcolm di Antonio Corianò. Eccellente come sempre il coro in sfaccettati ruoli a dar colore ad una scenografia generalmente non più che essenziale di Ferdinand Wögerbauer. Convincenti per il colorismo acceso i costumi di Anna Maria Heinriech (il rosso sangue degli abiti regali). L'edizione è quella parigina del 1865 con il più efficace e risolutivo finale originale fiorentino del 1847. Alla fine applausi trionfali a tutti da parte di un parterre de Rois a suggellare una serata storica di altissimo livello che fa ben sperare per il domani del Teatro quirite.