Ben vengano le licenze poetiche degli artisti
Filmstorico in sommo grado, consulenza di Franco Cardini. Eppure, la vicenda trattava un certo cavaliere Templare molto noto in modo del tutto antistorico. Lo feci notare a Pupi Avati, e lui mi rispose: «Avrò pure diritto a un po' di licenza poetica!». Qualche anno dopo, vidi "Il conte di Montecristo" di Sergio Rubini, senza aver prima letto l'omonimo capolavoro di Alexandre Dumas al quale Rubini si era ispirato: che delusione, scoprendo che il regista aveva fatto riunire il povero Edmond Dantes (un impareggiabile Depardieux) con l'amore della sua gioventù negata, mentre Dumas si era risolto per un epilogo banale e cinico, dove il protagonista, sdegnata l'antica fiamma sua coetanea, si prende una ragazza di trent'anni più giovane. Forse perché la Mercedes di Sergio Rubini era una stupenda Ornella Muti assai difficile da snobbare: ma in breve, lodata sia la licenza poetica che segna la cifra dei più grandi artisti. Impossibile (e un po' dissacrante) accostare la ricchezza e la poesia di Avati o di Rubini ai "polpettoni" mitologici di Hollywood; ma va notato che anche il precedente hollywoodiano del nostro film, lo «Scontro di Titani» di Desmond Davies del 1981 aveva stravolto del tutto l'antico mito greco. Nella Grecia antica i miti avevano spesso diverse varianti, erano storie avventurose passate di bocca in bocca, e ogni narratore vi aggiungeva un nuovo dettaglio. Nel Medioevo la tendenza non mutò. Avventura, colpi di scena, fotografia mozzafiato ed effetti speciali da brivido: ecco di che accontentare gli estimatori del genere, cioè il pubblico per il quale esattamente è stato pensato e prodotto. Che non è lo stesso pubblico amante di una filologica, raffinata, rispettosa pellicola d'essai.