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di Lucio D'Arcangelo L'occasione del Centocinquantenario ha visto, nell'anno appena trascorso, una rinnovato interesse per la «questione della lingua».

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Dardanodescrive nel modo più esauriente e circostanziato la situazione della nostra lingua, veicolo ed espressione di un'identità nazionale sempre più minacciata dal «misticismo verso l'Altro: un Altro a cui si attribuisce ogni bene e ogni virtù, mentre si vede nell'Occidente l'origine di tutti i mali che affliggono il presente». Negli anni '80 ci si rallegrava che l'italiano non fosse più la lingua inamidata della tradizione letteraria e fosse divenuto finalmente «parlato», estendendosi a fasce sempre più ampie della popolazione. Ma dopo un trentennio e più l'obiettivo di una lingua comune, condivisa da tutti, resta ancora largamente virtuale. Di pari passo con l'italianizzazione o, se vogliamo, l'annacquamento dei dialetti, si sono formate varietà regionali di italiano, ma non è nato uno standard, un modello di riferimento, e la lingua della conversazione, la prima che dovrebbe sapere, si è spezzettata in mille rivoli e domina il finto parlato della TV. Le scritture si sono emancipate da certi modelli tradizionali, ma non per questo sono diventate più efficaci ed incisive. Forse oggi, scrive Dardano, esse «appaiono più sincere, meno accademiche rispetto al passato, ma mostrano sovente una sintassi incerta, un lessico inadeguato, una testualità traballante». Invece che un italiano sovraregionale, come si auspicava, è nato un italiano di risulta, abbandonato ai modelli più deteriori: i volgarismi suburbani e le manipolazioni del «politicamente corretto». Oggi l'uso esclusivo del dialetto è in via di sparizione. Ma in compenso si è diffusa la tendenza a glorificare delle non ben identificate parlate regionali, parificandole alla lingua, che anzi alcuni intellettuali vorrebbero detronizzare, come se l'unità linguistica non fosse un bene prezioso da salvaguardare. Dante esaltava la lingua volgare come mezzo capace di esprimere «altissimi nuovi concetti», e Alberto Savinio ha scritto che l'italiano è una «lingua antiromantica, intellettuale, indiretta», insomma la lingua del pensiero per eccellenza. Questo ne fece per secoli un modello da imitare e seguire, ma, causa la nostra incuria, non ne siamo stati all'altezza. Negli ultimi decenni l'italiano ha perduto di prestigio in Europa ed ha subito delle perdite consistenti (pensiamo all'impoverimento del vocabolario in uso), che non sono state compensate da una maggiore efficienza in termini di comunicazione. Tramontati i modelli letterari, non rimpiazzati da una cultura sostanziale, ci si affida a materiale di riuso, proveniente in particolare dalle scienze, soprattutto medicina e psicologia, con l'effetto di un'asfissiante «difficilizzazione», come è stata chiamata. La coerenza , non soltanto grammaticale, dell'espressione ne ha sofferto in modo evidente e la lingua ha perso di vivezza e concretezza a tutti i livelli. Infine l'anglicizzazione ha raggiunto livelli di guardia: spesso si tratta di termini non assimilati e di discutibile utilità. La conseguenza è che l'italiano corrente si presenta come una lingua-macedonia, tendente al ribasso culturale. Il fenomeno risale agli anni '70, quando era di moda l'invito a «lasciare la lingua ai parlanti». Ma il perpetuarsi della situazione è dovuto in gran parte alla tv spazzatura. Una scuola ormai burocratizzata e sindacalizzata e una classe dirigente priva di ogni «lealismo» nei confronti della lingua nazionale hanno fatto il resto. Quali le cause? Eccone alcune: «la rovinosa caduta di prestigio che ha trascinato in basso la classe docente», le autoflagellazioni dei libri di storia, lo smontaggio delle retoriche per costruire altre retoriche, e la «viscosità del linguaggio politico», che indica (Rapporto Eurispes) «un Paese immobile privo di idee e progetti, nel quale sembra che anche i soggetti che si propongono di guidare l'Italia futura siano in realtà più interessati ad una transizione senza fine».

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