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di Carmine Mastroianni «Vae Victis!», guai ai vinti, gridava inferocito ai Romani il gallo Brenno all'indomani del sacco di Roma nel 390 a.C.

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Quellostesso grido, accompagnato da una severa damnatio memoriae, fu quello che levarono "i conquistatori" sabaudi a danno dei tanti prìncipi italiani spazzati via dall'irrefrenabile, ma discutibile, moto risorgimentale nel 1859/60. Le spese maggiori ebbero a subirle i Borboni di Napoli e con essi l'intero Meridione coinvolti, loro malgrado, in un processo di unificazione nazionale che assunse di fatto i colori sanguigni della conquista coloniale. Proprio su questi problemi irrisolti è andato ad indagare un piemontese doc come Gianni Oliva, in un saggio intitolato "Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e di Sicilia", Mondadori, euro 20. "Per centocinquant'anni, le vicende del Mezzogiorno borbonico - spiega Oliva - sono state una storia negata. Da quando Vittorio Emanuele II è stato proclamato re d'Italia l'immagine ufficiale del Sud è stata quella di un territorio mal governato, oppresso da sovrani inetti e reazionari, gongolanti su una società ignorante e semifeudale". Le ragioni che hanno condotto ad una falsificazione così palese della storia sono ormai evidenti, ma continuano a trascinarsi da centocinquant'anni senza una reale soluzione, questo anche perché, dice Oliva, "la storia raccontata dai vincitori è arrogante e quella narrata dai vinti è rancorosa". Ecco spiegato il motivo per cui la curiosità dell'autore ha scelto di inoltrare lo sguardo nel passato e analizzare il Regno borbonico dalle origini con l'esuberante Carlo III nel 1734, alla fine con lo sfortunato Francesco II nel 1861. "L'obiettivo di Carlo III e poi del figlio Ferdinando I - il re Nasone - fu quello di consolidare un regno nato con almeno due secoli di ritardo rispetto alle altre monarchie europee e fino a quel momento oggetto di razzie e di sfruttamento prima da parte degli spagnoli e poi degli austriaci che, per mantenere il controllo su quelle regioni, avevano lasciato spadroneggiare la rapace nobiltà feudale e le oscurantiste gerarchie ecclesiastiche. Fu una lotta dura e difficile che rappresentò un ostacolo anche per riformatori determinati come Bernardo Tanucci, l'uomo forte del governo napoletano per un quarto di secolo. Scherzando direi che fu comunque più bravo di Monti nel riuscire a far pagare un po' di tasse sia ai baroni sia alla Chiesa, in un'epoca in cui feudalesimo e potere temporale andavano a braccetto!". Il Sud del Settecento, come intuì già Benedetto Croce, è un "fermento meraviglioso" e l'arte e la cultura ne sono ancora oggi le testimonianze più evidente. Napoli divenne una capitale europea a tutti gli effetti, si edificarono un nuovo Palazzo reale con l'annesso Teatro San Carlo, le residenze di Portici e di Capodimonte, sede quest'ultima delle inimitabili fabbriche di ceramica e "sopra ogni altra cosa - commenta Oliva - la Reggia vanvitelliana di Caserta, che in Italia e forse in Europa non ebbe più eguali. E come dimenticare gli scavi di Pompei e di Ercolano che attirarono nel golfo partenopeo Goethe, Stendal, Andersen, Richter? Solamente per citarne alcuni. E nel frattempo si assisteva ad una fioritura di studi filosofici ed economici che avevano per protagonisti intellettuali del calibro di Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri. L'Università di Napoli, prima in Europa, si dotava nel 1754 della cattedra di economia e commercio nella consapevolezza che gli indirizzi di studio devono assecondare le trasformazioni della società". Per Oliva però quell'incantesimo cominciò a spezzarsi con la rivoluzione giacobina del 1799, "una rivoluzione troppo straniera", mal gestita dai ceti giacobini napoletani e sfociata nel sangue, con l'eliminazione fisica di un'intera generazione di progressisti: Pagano, Pimentel, Caracciolo, Riario Sforza e con loro notai, avvocati, medici, banchieri e possidenti. "Una rottura, spiega Oliva, che non si poté più ricucire. Neanche i grandi progressi che il Sud conseguì a metà Ottocento con il penultimo dei Borboni, Ferdinando II - il re Bomba -, poterono mettere i sovrani meridionali nelle condizioni di affrontare da protagonisti i rivolgimenti determinati prima dalle rivoluzioni del 1848 e poi, undici anni dopo, dai moti di un Risorgimento più settentrionale che meridionale".

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