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di Francesco Perfetti Un grande poeta ligure, l'autore di Resine e di Trucioli, Camillo Sbarbaro, l'ebbe come allievo.

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Tuttavia,questo intellettuale riservato e schivo, diviso fra l'amore per la poesia e la passione per i licheni, riuscì a stabilire una sintonia profonda con quel ragazzo esuberante e indocile ma dotato di una vivace intelligenza e di una precoce sensibilità artistica. E ne colse, con sorpresa, la grande ricchezza "d'insospettati interessi ed entusiasmi" quando, ancora studente liceale, lo sentì accalorarsi contro un critico che si era espresso in maniera ostile nei confronti della pittura di Giorgio De Chirico. Il nome di Giorgio Labò è rimasto legato alla sua tragica fine ricordata da una lapide apposta sul frontone di un'abitazione romana. Non ancora venticinquenne, dopo l'8 settembre, aveva aderito ai Gruppi di Azione Patriottica romani, era stato arrestato dalle SS, brutalmente torturato a via Tasso e, infine, fucilato a Forte Bravetta. Un martire della libertà, insomma. Ma anche qualcosa di più di un eroe. Quando la brutalità nazista lo uccise, il pur giovanissimo Giorgio si era già affermato nel mondo culturale. Non a caso, qualche tempo dopo, a libertà ormai conquistata, Elio Vittorini ricordò che proprio con Giorgio Labò (e con due altri giovani intellettuali, Giaime Pintor ed Eugenio Curiel, pure tragicamente caduti, aveva spesso discusso di una "nuova cultura" che - son parole testuali - "avremmo dovuto cercare, di un POLITECNICO che avremmo dovuto fare". La sua celebre rivista, Il Politecnico appunto, Vittorini la fece, poi, da solo, ma non dimenticò mai gli amici con i quali aveva condiviso il progetto. A Giorgio Labò ha dedicato un bellissimo volume Pietro Boragina, un fine intellettuale genovese, uomo di lettere e di teatro oltre che pittore apprezzato. Il volume si intitola semplicemente Vita di Giorgio Labò (Aragno Editore, pp. 360, Euro 40) ma è molto più di una biografia. È un suggestivo affresco della vita culturale e artistica italiana degli anni trenta, scritto con grande e commossa partecipazione e impreziosito dalla riproduzione di molti importanti documenti inediti provenienti, in gran parte, dall'archivio privato di Giuseppe Marcenaro. Giorgio era figlio di un famoso architetto genovese, Mario Labò, e di una coltissima e poliglotta signora triestina di religione ebraica, Enrica Morpurgo, che aveva fatto propria la cultura cosmopolita mitteleuropea di quella città ancora pervasa del passato asburgico. La casa dei Labò era diventata, di fatto, un vero e proprio crocevia, per così dire, della cultura artistica e letteraria italiana più aperta alle suggestioni europee. E con essa, anche quella della zia Lucia, sposata con il pittore Rodocananchi, la quale aveva aperto il salotto ai letterati più significativi della prima metà del Novecento: Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro, Carlo Emilio Gadda e Carlo Bo, Henry Furst e Orsola Nemi, Elio Vittorini e Giovanni Ansaldo e via dicendo. Il giovane Giorgio era cresciuto in questo ambiente, dove si discuteva di Otto Wagner e della Secessione viennese, di Henry James e Virginia Woolf, di Marcel Proust e James Joyce. Un ambiente eclettico ma certamente stimolante per un giovane pieno di vitalità ed esuberanza. Studente di architettura al Politecnico di Milano, il giovane Labò frequentò gli artisti raccolti attorno alla rivista Corrente, fondata da Ernesto Treccani e, poi, soppressa dal regime nel giugno 1940 al momento dell'entrata in guerra dell'Italia. Vicino a questo periodico si era costituito un movimento intellettuale proiettato verso la cultura europea del quale fecero parte pittori illustri o destinati a diventare illustri (da Treccani a Cassinari, da Guttuso a Morlotti, da Migneco a Sassu e a Vedova), ma anche letterari e poeti (da Sereni a Vittorini), filosofi, registi e via dicendo: un movimento che non si esauriva con la pubblicazione della rivista, ma che si sviluppava anche altre iniziative, dall'organizzazione di mostre alla stampa dell'Almanacco. Un circolo, insomma, un centro di cultura del quale il giovanissimo Giorgio Labò fece parte e dove strinse profondi legami con artisti e letterati che lo avrebbero ricordato con affetto dopo la sua drammatica fine. Proprio per Corrente egli scrisse diversi articoli, in prevalenza di critica d'arte, nei quali il giudizio - mi vengono alla mente belle e corpose pagine dedicate a Giorgio De Chirico o a Filippo De Pisis - non era mai meramente estetico, ma piuttosto il distillato di una cultura ricca e polivalente, frutto di una intelligenza vivace e aperta. Agli amici milanesi si aggiunsero presto, per Giorgio Labò militare in Sabina, quelli romani, a cominciare dagli artisti della cosiddetta "scuola romana", Antonietta Raphäel e Mario Mafai primi fra gli altri. Già da qualche tempo aveva cominciato a interessarsi di questo gruppo, essendo rimasto profondamente colpito (lo attestano alcune lettere inedite pubblicate da Boragina) dall'intensità espressiva e dal nuovo linguaggio figurativo che gli era parso di poter cogliere nella pittura di Scipione (Gino Bonichi), morto giovanissimo ma protagonista, insieme a Raphäel e a Mafai, della vita artistica della capitale attraverso la creazione della "scuola di via Cavour", primo nucleo della "scuola romana". Di questo ambiente egli aveva assorbito lo spirito di apertura alle espressioni figurative europee (la scoperta, per esempio, di un espressionismo visionario) e la forza dirompente nei confronti della tradizione. Il volume di Pietro Boragina non è, malgrado il titolo (e lo sottolineo ancora una volta), una biografia di Giorgio Labò, eroe della Resistenza, studioso, architetto, critico d'arte. È, piuttosto, quasi un viaggio sentimentale in compagnia di un'anima inquieta e generosa. Ed è qui, probabilmente, il fascino di un libro unico nel suo genere, che finisce per essere un omaggio all'intelligenza.

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