Radu Mihaileanu e la rivoluzione delle donne
Nelfilm mi chiedo come possiamo reinventarla, ce ne sarebbe bisogno». È quanto il regista romeno naturalizzato francese Radu Mihaileanu (già regista di «Train de vie» e «Il concerto») ha voluto mettere in scena con «La sorgente dell'amore», la commedia drammatica con Leila Bekhti, Hafsia Herzi, Saleh Bakri, Hiam Abbass, che dopo il debutto in competizione a Cannes 2011, arriva in Italia il 9 marzo distribuita da Bim. Il cineasta, che ha iniziato a scrivere nel 2006 questa storia in cui le donne si fanno protagoniste di un cambiamento in una microsocietà in stallo, ha ritrovato la stessa componente nella primavera araba: «Era evidente il desiderio di molte donne arabe di avere sempre più accesso alla cultura e all'istruzione, a posizioni decisionali. Un cambiamento che la tecnologia stava rendendo possibile. Ma non avevamo pensato alla rapidità con cui tutto ciò sarebbe avvenuto e all'effetto domino della rivoluzione. Oggi, proprio attraverso la situazione delle donne in quei Paesi, possiamo vedere dove il bisogno di democrazia sia stato mantenuto o tradito - sottolinea - Ad esempio in Tunisia, le donne sono riuscite a mantenere una forma di partecipazione al governo attraverso l'opposizione, mentre in Paesi come l'Egitto e la Libia, governati dai fondamentalisti, l'opposizione è minima, o non esiste. Dove un regime maschilista ne sostituisce un altro non so quanta speranza ci sia per l'uguaglianza». Radu Mihaileanu, in un film immerso nella musica («è l'espressione più profonda e diretta dell'identità di ognuno di noi»), strizzando l'occhio a Lisistrata di Aristofane, mette al centro della storia le donne di un piccolo villaggio del Maghreb che, stanche di doversi arrampicare ogni giorno sotto il sole per prendere l'acqua dalla sorgente in cima alla montagna, decidono di fare lo sciopero del sesso finché i loro uomini, indifferenti al problema, non si decideranno a sistemare, come a lungo richiesto, le tubature per fare arrivare l'acqua al villaggio. Come regista «che appartiene a una civiltà giudaico-cristiana, nel raccontare una storia su donne di tradizione arabo-musulmana, avevo tutto contro di me - dice Mihaileanu - Ho esitato, mi ero ritagliato un ruolo solo come produttore e cosceneggiatore e a lungo ho cercato una regista araba. Poi, anche grazie a molti amici musulmani, mi sono convinto a dirigere il film. La mia esigenza primaria è stata non tradire né la soggettività di quella cultura né la soggettività femminile. Per questo mi sono preparato a lungo per capire ogni sfumatura». Come quelle «che le donne arabe danno alla parola tradizione. Nonostante imponga anche cose che reputiamo inaccettabili, per loro è parte del loro ruolo di responsabili del ciclo della vita, della pace interiore della comunità rispetto a uomini più volitivi, irresponsabili e spesso assenti». Infine rispetto al trionfo agli Oscar di The Artist, Mihaileanu si dice «felicissimo. Nell'epoca di numeri, dell'accelerazione dei tempi, del digitale, lo straordinario coraggio di fare un film muto, in bianco e nero, in un formato che tutte le televisioni rifiutavano, non può che suscitare da parte mia una profonda ammirazione. Tutti questi premi è come se dicessero ad Hollywood e all'industria del cinema di lasciarci liberi dalle loro regole, sono una difesa della cultura europea, della diversità». Con queste parole Mihaileanu esprime la sua fiducia nella capacità di autorigenerazione del cinema. È dall'interno stesso della settima arte che arriva il bisogno di sperimentare nuovi approcci ai vecchi linguaggi.