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Rabbia e furore nell'epica rock di Springsteen

Bruce Springsteen

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Quando la Storia ti sfonda la porta di casa, Bruce è sempre nei dintorni. C'era ai tempi in cui i reduci del Vietnam e l'edonismo reaganiano segnavano la corsa zoppa di un popolo afflitto ed esaltato. C'era nei giorni in cui non si diradava mai la nuvola del crollo delle Torri, e lui sanciva il riscatto di un Paese ferito. C'era quando tra le piste del deserto iracheno indicava le ombre dei demoni di un'altra guerra impossibile. "Born in the Usa", "The rising", "Devils and dust", tasselli fondamentali di uno scenario in cui l'America è metafora e luogo fondante del mondo contemporaneo, e dove le stelle e strisce simboleggiano il declino dell'Occidente. Prendete quest'America universale e condivisa, e poi riconsegnatela alle sue tipicità meno esportabili; bagnatela nelle acque di un rock potente, rabbioso e disilluso come mai è dato di ascoltare in questi anni cupi, ed avrete "Wrecking ball", il disco più necessario che Springsteen abbia sfornato nel terzo millennio. C'è, in questa nuova collezione di canzoni, il racconto esemplare di un pianeta messo sotto scacco dalle elites finanziarie che ingrassano grazie a uno strozzinaggio morale e sociale, prima ancora che economico, ai danni dei meno garantiti. C'è il buio all'orizzonte di ogni sorte, ma anche, sùbito, il bruciante scarto per una risalita spirituale, un rimboccarsi le maniche affidato alla gente comune, un richiamo che si trasmette di anima in anima, nessuno si senta escluso, ce la faremo da soli. Ecco perché "We take care of our own" non è solo il prossimo inno da stadio del Boss, ma anche un proclama, un condivisibile programma elettorale per gli onesti, un piano d'azione per gli Indignati di buona volontà. La rabbia, la furia, la rivendicazione, espressi da Springsteen in versi che incrociano l'asciuttezza biblica con un realismo dolente e consapevole: come se questo non fosse un cd, ma un romanzo scritto a più mani con lo stile mesto e puntuale di Richard Ford, la visionarietà scabra e feroce di Cormac McCarthy, l'epos maestoso di William Faulkner. Bruce musica questo immaginario Grande Libro Americano con una perfetta sequenza di brani, e dove la E Street Band (orfana dei cari Danny Federici e Clarence Clemons, anche se quest'ultimo offre lasciti con il suo sax) rinuncia in parte al proprio cliché per una pertinace ricerca sul suono voluta dal produttore Ron Aniello: e si passa per le robuste suggestioni da folk irlandese in "Shackled and drawn" o in "Death to my hometown" (echi dalle Seeger Sessions), per gli esperimenti rap sul tappeto soul di "Rocky ground", per i mandolini italiani e i fiati da funeral band nella superba ballata "Jack of all trades" (con Tom Morello ex Audioslave alla chitarra), e scampoli di citazioni dal catalogo della musica popolare: il treno che accoglie i derelitti su "Land of hope and dreams" è infatti lo stesso della "People get ready" di Curtis Mayfield. Sinuoso e sexy il gospel-blues di "You've got it", senza tempo la marcia dei redivivi in "We are alive". E poi la vertiginosa "Wrecking ball", la palla demolitrice che sembra buttar giù i sogni della gioventù, ma che suona quasi come "Born to run". Non c'è ruggine nel motore, ma ancora tanta strada da percorrere, con la saggezza che serve per affrontare altre imboscate della Storia.

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