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Addio Whitney, "voce di Dio"

Whitney Houston

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SANREMO Nella mia memoria quel piatto resta sempre vuoto. Sono passati 25 anni, ma potrei giurare che quel giorno, seduta a tavola davanti a me, Whitney non avesse toccato cibo. Eravamo proprio qui, in un grande albergo di Sanremo, e io avevo avuto il privilegio di intervistarla, con i paparazzi tenuti a distanza di sicurezza, e un collega infiltrato che tirò fuori un'Olivetti portatile e prese a digitare, ostentatamente e rumorosamente, tutto quel che io e la superstar ci dicevamo. Lei ne fu infastidita, ma non era quello il punto. Il punto era il piatto vuoto. Era come se quella gazzella nera appena uscita dall'età dell'innocenza, quella giovane superstar con la voce baciata dagli dei fosse incapace di nutrire la propria magia, mentre un demone imperscrutato la stava già mangiando, dentro. La Houston parlò svogliatamente: le solite baggianate preconfezionate su "amo l'Italia anche se è la prima volta che ci vengo", oppure "sono un'artista fortunata e devo dire grazie al pubblico". Non cavai un ragno dal buco da quel colloquio, ma capii una volta di più che se sei una stella di quella dimensione devi nascere e morire a vista, mentre tutto il resto della tua vita si trasforma in un inferno privato e semisegreto, nelle pause tra un concerto e una registrazione, dal momento in cui il manager ti sottrae ai media dicendo "era l'ultima domanda, il tempo è scaduto, grazie" fin quando non riemergi sotto le luci della ribalta. E Whitney riemerse qualche ora più tardi, quando sul palco dell'Ariston Pippo le concesse - caso rarissimo nella storia festivaliera - il bis su "All at once" e venne giù il teatro, e pareva di sentire l'eco degli applausi di milioni di italiani, ammaliati dall'altra parte del televisore. La voce è lo strumento più tragico, perché lascia nuda l'anima, con tutte le sue ferite sanguinanti: quando canti in quel modo non puoi nasconderle. In quei destini talentuosi vibra spesso una premonizione, e ad ascoltare con attenzione puoi scoprirci dentro, sommessa, una richiesta d'aiuto. "Il demone che è in me" ammise anni più tardi lei, clamorosamente, alla tv americana. Dunque esisteva. Quel demone che l'ha fatta morire in circostanze da chiarire dentro una vasca da bagno, come accadde a Jim Morrison. Che l'ha costretta a consumarsi d'amore per l'uomo sbagliato, come era successo ad Amy Winehouse. Che l'aveva ridotta a uno zombie psicotico, come Michael Jackson. Che l'aveva spinta a cercare riparo dai tormenti nella droga, come Billie Holiday. Che l'aveva indotta a chiedere affetto alle legioni dei suoi ammiratori, come quando Janis Joplin, strafatta di bourbon gridava alle prime file, a metà di un blues: «C'è nessuno qui che vuole venire a letto con me, stanotte?». Due minuti dopo le breaking news della scomparsa, tutti i commentatori sono stati costretti a riaggiornare i consunti files sulla spietatezza dello star-system: quello televisivo che la invita a Beverly Hills per farla partecipare ai Grammy Awards, e che poi si frega le mani per il boom degli ascolti a livello globale. Quello discografico, che esprime cordoglio e twitta affranto la frasetta di circostanza, mentre allo stesso telefono ordina il pressaggio straordinario dei suoi cd e dvd, che da oggi invaderanno i negozi del pianeta, conquistando le classifiche. Quello familiare, che dopo averla sepolta tirerà fuori dai cassetti gli inediti "che erano quasi ultimati per un nuovo grande ritorno". Quello editoriale, che in questi minuti starà già trattando i diritti per le biografie non autorizzate, e mettendo sotto contratto i collaboratori della Houston perché si convincano a raccontare quello che sanno su quel menage matrimoniale in cui la diva sembrava vittima della sindrome di Stoccolma, prigioniera della violenza del marito, il cantante Bobby Brown, eppure incapace di affrancarsi da lui fino a un divorzio che non l'ha salvata, ma ulteriormente prostrata. Qualcuno tirerà fuori la tesi di un complotto per farla fuori e speculare sul mito dell'usignolo declinante. Altri scriveranno libri giurando di averla vista dopo la presunta morte fare la spesa in un supermarket, sostenendo che si è solo ritirata e che il ritrovamento nell'hotel di Beverly Hills è stata una messinscena. Qualche autore devolverà parte dei diritti alla causa delle donne maltrattate, che l'eleggeranno a paladina. I colleghi la celebreranno in un supershow-tributo, come fece lei partecipando al concerto-funerale di Jacko, quando era ormai poco più di uno scheletro davanti a un microfono: e stavolta, a renderle omaggio potrebbero esserci le epigone, da Christina Aguilera a Mariah Carey. Se non stesse male di suo, dovrebbe intervenire la sua madrina, Aretha Franklin, assieme alla cugina Dionne Warwick. Mamma Cissy Houston se n'è andata prima di questa figlia scelleratamente fragile. Qui a Sanremo Morandi progetta di ricordarla con «All at once» cantata da Nina Zilli e con quel video di 25 anni fa, quando il piatto era vuoto ma la voce di Whitney spaccava in due il cielo.

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