Lucio l'inafferrabile. Quel laico a caccia di Dio
Una volta gli chiesi, a bruciapelo: Dio ti bracca o ti accoglie? E lui: «Mi mette allegria. Dio non è sofferenza. Lo ascolto anche quando mi addormento durante la predica, alla Messa. Mi riservo di avere ulteriori folgorazioni, se non conversioni, fino all'ultimo istante utile». Allora lo incalzai: se Dio fosse un accordo musicale, quale sarebbe? Lucio prese la domanda sul serio: «È nei rumori della notte, amplificati dallo stato alterato della coscienza. Il fischio lontano di un treno, l'abbaiare dei cani in campagna, le cicale d'estate. Suoni metafisici, quasi. Ma anche le voci ovattate di una tv vista dalla strada, alla sera, dietro una finestra ai piani alti. La famiglia come nostalgia di un valore in cui credo». E allora te lo figuravi tradizionalista, un uomo certo alle prese con gli scricchiolii della propria coscienza, ma capace di tenere la barra della propria barchetta su una rotta conosciuta e affidabile. Era lì che ti spiazzava, che si rivelava già su un altro terreno, uno sperimentatore della vita che non tornava mai sui propri passi, che era già oltre mentre ci parlavi, come l'altro Lucio, quel Battisti nato il 5 marzo 1943, un giorno dopo di lui.Hai mai pensato di farti prete? lo provocavo: «Piuttosto mi sparo in un ginocchio». Non era un baciapile, ma un laico che da un anno si faceva confessare da don Chessa, un monaco benedettino che riconosceva a Dalla «una Fede vissuta nel dolore e nella fragilità umana». Sei sempre comunista?, lo schernivo. «Mai stato. E l'errore della sinistra è stato di rivendicare una superiorità morale che il mondo non le garantisce più». Perché, ti spiegava, «tutto cambia attorno a noi, più velocemente di quanto non riusciamo a comprendere. Non siamo in uno stagno puzzolente e fermo, le idee fluttuano come un mare in tempesta». E se insinuavi che altri avrebbero cantato le sue cose senza capirle fino in fondo, ti descriveva la bellezza di San Giovanni agli Eremiti, a Palermo: «Nei secoli è stato tempio greco, poi paleocristiano, arabo, e infine toccato dal barocco. La coscienza artistica, così come quella spirituale, si forma per accumulo e contrapposizione». Lucio l'Inafferrabile, l'iconoclasta per burla, l'architetto di un progetto che ancora non c'è. Si vergognava a cantare "Caruso", quel capolavoro melò-pop che faceva piangere di commozione chiunque l'ascoltasse, e che faceva sospirare i malati che non riuscivano più a sussurrare "te vojo bene assaje" a chi li accudiva. Se ne vergognava, ma se andavi a trovarlo nell'incasinatissima casa bolognese, sentivi quella melodia intonata dal suo merlo parlante, mentre Lucio sogghignava ironico. Nella sua cultura e nella sua grande educazione, amava mostrare l'animo di un clown mai cresciuto. Possibile che lo stesso artista che aveva racchiuso in quattro minuti l'enigma psichico dell'umanità su "Come è profondo il mare" avesse poi scritto la beffa trash di "Merdman", con l'antieroe a spargere sterco ovunque? Come si conciliavano il Dalla socio-politico degli anni Settanta con quello beffardo di due o tre decenni dopo? Lucio l'Inafferrabile si faceva ispirare "Piazza Grande" dal dramma dei senzatetto, "Il gigante e la bambina" dall'orrore della pedofilia, "Intervista con l'Avvocato" dalla tentazione del reportage sindacal-industriale, "Disperato erotico stomp" dall'onanismo svincolato dall'autocolpevolizzazione (e quanto "Portnoy" in quel testo); e poi cazzeggiava con brani senza costrutto, si baloccava con il pop elettronico, si stufava e improvvisamente virava verso cose serissime. E allora vai con la lirica, a sfidare Puccini con una "Tosca" tutta sua, o a curare la regia di un "Pulcinella" stravinskijano. Gli si illuminavano gli occhi quando ti raccontava di quando a Firenze avevano chiuso Ponte Vecchio per il suo allestimento della Beggar's Opera con liriche di Benvenuto Cellini, o quando ti spiegava il suo contributo al film di Mimmo Paladino su "Don Chisciotte". Eppure era lo stesso della filastrocca, un po' metafora un po' nonsense, di "Attenti al lupo". Credevi di averlo capito, e lui si spostava, si nascondeva, si rintanava nella barca-studio ormeggiata nel Golfo di Napoli a pensarne un'altra. Ieri, a ora di pranzo, in tutta Italia si è abbassato di colpo il volume di ogni rumore molesto. Ognuno ha cercato nella testa la "propria" canzone di Lucio. Qualcuno si è sorpreso per l'attualità de "L'anno che verrà", qualche genitore incanutito ha versato lacrime su "Futura", i sogni dei bambini concepiti al tempo dei russi e degli americani. L'ho visto dieci giorni fa, a Sanremo. Quella mano che gli stringevi e che ormai tremava un po' troppo. Cordiale come sempre, elogiava Carone, ti accennava entusiasta al tour europeo. Poi si defilava dietro le quinte. Ti giravi e non c'era già più.