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di Lidia Lombardi Entra in sala e sembra un clone rivisto e corretto nell'anno 2012 di Enzo, il coatto di «Un sacco bello».

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Inuna mano non riesce a stringere il bicchierone di carta traboccante di pop corn. Il capello è riccio e nero, come il giubbetto di pelle. E si porta appresso una ragazza sui trampoli vestita di un taillerino verde bottiglia. Buio sulle poltrone del cinema romano, che continua a riempirsi mentre passano sullo schermo rimbombando venti minuti di pubblicità. Entrano soprattutto coppie. Famiglie composte da madre, padre e figli ragazzini. Gruppi di amici, due lui e due lei, che si si chiamano nell'oscurità con un «Fernando, stamo qui» e gli altri li zittiscono sibilando un indignato sssccc anche se il sonoro dei promo va a mille. Titoli di testa, comincia «Posti in piedi in paradiso», by Carlo Verdone, il film che è un rito romanissimo vedere in questo fine settimana. La ggente è omologata. La maggior parte sbracati sulle poltrone, la testa appoggiata sulla spalliera. E lo stomaco sommerso appunto dal bicchierone dei pop corn. La pellicola prende il largo e s'innesca la complicità col pubblico. Verdone alias Ulisse, Pierfrancesco Favino (Fulvio) e Marco Giallini (Domenico) sono il terzetto di padri separati che stentano a sbarcare il lunario. Hanno fatto scelte sciagurate, affari sballati, tradimenti cretini o seriali. Le mogli li hanno mollati e sbattuti fuori di casa, quando non sono loro, come lo bruffone assatanato di giochi d'azzardo Domenico, a svolazzare da una donna all'altra seminando figli di cui talvolta non ricorda il nome. È lui, improbabile agente immobiliare, che propone agli altri due, appena conosciuti, di prendere in affitto insieme un appartamento. «Duecentocinquanta euro a testa al mese, sentiteme, ce conviene a tutti». Ulisse, che una volta faceva il produttore discografico, che s'è rovinato per finanziare il disco della moglie diciottenne fuggita poi a Parigi, che parla con la figlia signorina su Skype e vive nel retrobottega del suo negozietto di dischi di vinile e memorabilia rock, lo guarda storto. Idem Fulvio, critico cinematografico cacciato di casa dalla moglie fresca puerpera e declassato a cronista di rosa perché il caporedattore ha scoperto che si portava a letto la sua signora, e adesso s'è sistemato nella foresteria di un istituto religioso, ma non può andare alle lunghe. Alla fine necessità fa virtù e accettano la convivenza. S'arrampicano sulla sedia della cucina e penzolano dalla finestra per prendere la linea del cellulare. Ogni tanto pare ci sia il terremoto. «È la metro, passa qua de sotto, conviene perché in dieci minuti stai dappertutto», concilia il pallonaro Domenico. Il pubblico anticipa le battute, come il «vaffa» che l'ennesima fidanzata dell'agente immobiliare gira al suo amore quando gli dice che è incinta e lui per tutta risposta le mostra la foto di sua moglie e dei due figli maggiorenni. E siccome Giallini per arrotondare fa il gigolò, ecco che un malore per aver preso quattro pillole blu («Altro che Viagra, è plutonio») fa entrare in scena la cardiologa con pene di cuore Michela Ramazzotti. «Una sciamannata, ma quant'è brava», commenta una spettatrice a fine proiezione. Perché s'infila le cuffiette dell'auricolare invece dello stetoscopio, rompe il lettuccio del retrobottega di Verdone nei tentativi erotici della prima notte insieme, si fa venire un attacco di periatrite nel secondo approccio col discografico fallito. La pellicola offre altre scene memorabili. Il gigolò convince gli amici squattrinati a un «esproprio proletario» in casa di una sua cliente «piena de gioielli». Ma mentre lui la impegna in un estenuante gioco sadomaso, Verdone e Favino sbagliano appartamento, entrano in quello di due vecchietti e nello scrigno sul comò trovano solo aghi e rocchetti di filo. È commedia pensosa e esilarante insieme. I tipi sono veri, senza gli eccessi grotteschi del Verdone prima maniera e poi del successo consolidato. Il trio di cinquantenni è da porta accanto. Quelli «esiliati» nei residence per reduci dal divorzio, costretti in camera-bagno-angolo cottura. I protagonisti, e Verdone prima di tutti, hanno rinunciato alla gestualità in surplus. Gli spettatori patiscono con loro di fronte ai figli che si mostrano più saggi. Il maggiore di Domenico si laurea 110 e lode alla Luiss e lavora nella libreria del Parco della Musica. La più piccola, cinque anni o giù di lì, è pronta a ricordare al padre assente che si chiama Linda. La figliola di Verdone aspetta un bambino da un coetaneo francese. Non vuole abortire, accetta la sfida di una famiglia normale, senza fronzoli. Magari aiutata un pochino da papà che finalmente si decide a vendere l'oggetto più prezioso della collezione vintage, la cinta di Jim Morrison: 120 mila euro entrano in cassa e sono, chissà, una svolta. Ai titoli di coda il tizio col casco sottobraccio e l'accompagnatrice sui trampoli commenta: «Io sono un padre separato e questa è mia sorella. Mai mi dimenticherei il nome di mia figlia. Adesso la vedo a sabati alterni, ma prima del divorzio è passato un anno prima di potermela tenere in braccio. Di genitori asfissianti o assenti ce ne sono ovunque. Per esempio Lino, un amico mio. L'ho soprannominato Maradona. Mica perché gioca bene a pallone. Ma perché ha avuto un figlio da una ragazza napoletana. E non sa nemmeno che faccia ha».

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