di Carlo Verdone Prima che diventasse mia, questa camera ospitò la salma di nonno Aldo (...), un uomo elegante ed affettuoso che si accompagnava con un bastone.
Aprivola mano e lui vi posava i due dobloni, poi mi dava un'affettuosa carezza. Era un momento di grande felicità e tenerezza. Mi rallegrava tanto quando, al suo rientro in casa, mi chiamava col suo accento bolognese: “Mascalzoneee! Dov'è il mascalzone?”. Nonostante fossi un bambino, non riuscii ad accettare la sua scomparsa e a metabolizzare il dolore. Fu terribile per me vederlo disteso sul letto, pallido, col vestito scuro, circondato da quattro candeloni e con un viavai di suore che a turno venivano a pregare per la sua anima. Per questo motivo mi portarono via, impedendomi di partecipare al funerale. Poco tempo dopo mi stabilii in quella stanza che, presto, diventò il contenitore delle mie passioni, dei miei suoni, del mio mondo. Destino volle che il balcone affacciasse non solo a pochi metri dalla finestra di Alberto Sordi, ma anche sul terrazzo di Sergio Tofano (il leggendario Signor Bonaventura), tanto simpatico e garbato. Lo vedevo spesso camminare avanti e indietro, con la sua vestaglia bordeaux, mentre pensava e ripeteva le battute dei personaggi che doveva portare in scena. Mia madre lo adorava. Ogni volta che lo vedeva, salutava mandandogli un bacio e lui rispondeva facendo altrettanto. Aveva anche preso l'abitudine di lanciare sul mio terrazzo delle caramelle al miele perché mamma, parlandoci da ringhiera a ringhiera, gli aveva detto che ne ero ghiotto. La mia era la stanza della musica, altro che dello studio! Penso sempre allo scaffale pieno di long playing e al mio fido giradischi Dual, con i due altoparlanti sistemati su due mensole in alto. Ho sempre amato il supporto di vinile, sin da piccolo ero affascinato dai dischi a 78 giri che aveva mia madre: Louis Armstrong, Harry Belafonte, Spirituals, la clavicembalista Wanda Landowska. Volevo sempre pulire i dischi e riporli nelle loro semplici custodie di carta bianca, con il buco nel mezzo che faceva vedere l'etichetta. Ero stregato dal fatto che dall'altoparlante di un giradischi potesse fuoriuscire “miracolosamente” musica. Mi sentivo un po' come il cane vicino al grammofono, il celebre marchio della casa discografica "La voce del padrone". Una buona parte della mia collezione musicale la devo alla generosità di zio Gastone. Quando decidevo di acquistare un disco (che allora costava millecinquecento lire) andavo puntualmente a trovare lo zio nel suo studio in via Margutta. Lui intuiva subito la vera ragione della mia visita e mi regalava cinquecento lire. E pensare che mi disse di fare una cosa pazzesca! Un giorno mi disse: “I dischi non vanno conservati con le copertine, ma devono essere sistemati in pila l'uno sopra l'altro. Così...”. “Ma sei sicuro?” risposi diffidente. “Ma certo, i dischi si conservano così. Via quelle copertine, buttale!”. Madonna mia, se oggi avessi ancora quelle copertine la mia collezione di vinili sarebbe andata a un'asta, ma siccome cercavo di imitare lo zio in tutto, mi feci trascinare in quella stronzata colossale! Quando mio padre andava all'estero, gli affibbiavo commissioni particolari tipo l'acquisto di album a tiratura limitata o con copertine diverse da quelle dell'edizione italiana. Sparavo sempre la musica a tutto volume e mio padre, puntualmente, mi gridava: “Carlooo, abbassa 'sta musica che non riesco a scrivere!”. A lui si accodava poi mia madre: “Carlooo, abbassa il volume che non riesco a correggere i compiti!”. Poi seguivano Luca e Silvia, più o meno con la stessa disperata richiesta. Sulla parete destra della stanza c'era un lungo armadio con tutti i miei vestiti. Sulle ante vi erano attaccate le fotografie delle mie fidanzate di liceo e di università, comprese quelle che mi avevano mollato. La maggior parte di loro erano straniere perché vicino casa c'era il Pallotti, un albergo frequentato spesso da giovani turiste che prima abbordavo e poi mi ci fidanzavo. Ricordo l'olandese Gidia, la francese Marie Line e, soprattutto, l'inglese Claire, che frequentava il prestigioso college di Ascot, nella stessa classe di Carolina di Monaco. In seguito a uno smodato corteggiamento, Claire cedette a un mio invito e così la portai una sera sotto il faro del Gianicolo, con il chiaro intento di pomiciare. Eravamo dentro la Fiat 132, sottratta a mio padre con l'inganno e a fare atmosfera c'era un vecchio registratore Sanyo dentro il quale avevo infilato una musicassetta con brani selezionati di Donovan e Bob Dylan. L'avrei baciata sulle note di Colours, di Donovan, ma quel brano non arrivava mai... Premevo continuamente i tasti di avvolgimento nastro senza alcun successo. Dopo mille tentativi, all'improvviso attaccò Colours e in quel momento la baciai. Poco dopo provai ad allungare timidamente le mani, ma appena Claire vide la mia imbranataggine, abbandonò il suo fare snob e m'invitò chiaramente a darci dentro con un eccitantissimo “Come on Carlo!”. In un istante mi tolsi la camicia e ribaltai il sedile. Purtroppo, sul più bello, arrivarono un casino di auto e moto rombanti e con gli abbaglianti accesi. Da quei mezzi scesero molti ceffi da galera che iniziarono a conversare, urlando a squarciagola, con i loro parenti e amici, rinchiusi nel carcere di Regina Coeli, distante circa duecento metri in linea d'aria. “A Zingarooo, guarda che i limoni n'erano maturi! Tocca passà a l'aranci!” gridò in codice tale Er Tricheco al detenuto. A quel punto pensai che sarebbe stato meglio tagliare la corda di corsa. Anche Claire era d'accordo, perché aveva voglia di continuare, ma in un posto meno affollato e sguaiato. Neppure il tempo di accendere l'auto ed ecco che uno di quei figuri mi si affacciò al finestrino. “A bello, me fai suonà un po' ‘r clacson? Devo fà ‘n segnale a 'n amico che sta ‘n cella”, mi chiese. Spaventato gli diedi il permesso, ma non avrei immaginato di dover attendere anche una risposta dalla lontana cella che...arrivò dopo ben mezz'ora! Sfortuna volle che, insieme alla risposta, arrivassero anche due pantere della polizia a sirene spiegate. In un secondo tutti quei malandrini svanirono. Rimasi solo, con gli agenti che iniziarono a domandarmi cosa facessi lì con quelle persone, ed io a spiegare – tutto intimorito – che avevo soltanto prestato il clacson a uno sconosciuto che doveva mandare un messaggio a un suo amico chiuso a Regina Coeli.