di Gino Agnese Fausto Gianfranceschi un mese fa, quando rifiutò ogni accanimento medico, chiamò il parroco della Chiesa Nuova e gli disse di desiderare l'estrema unzione.
Nellasua casa, tra le librerie e i mobili e i quadri d'epoca, la pendola scandiva le ore e lo scrittore correggeva le bozze dell'ultimo libro, di aforismi. Squillava ogni tanto il telefono, qualche amico in visita, le voci care nelle stanze. Lo sapeva anche il parroco che la fine presto sarebbe sopraggiunta, ma ugualmente si stupì della richiesta, spoglia d'ogni patema. Però l'indomani andò ad amministrargli l'olio santo, a confessarlo e a comunicarlo. Poi lo scrittore e il prete si accomodarono e ripresero il filo dei discorsi che negli anni li avevano fatti amici. Il prete, un polacco, conosceva la Fede adamantina di Fausto e la straordinaria padronanza ch'egli aveva di sé e delle sue scelte, talvolta difficili da condividere ma sempre nette e sentite. Soprattutto, era un irriducibile avversario del "pensiero unico". Gli piaceva rovesciare i luoghi comuni, se del caso fino al paradosso. Tanti anni fa, al tempo del libro Svelare la morte, veleggiando tra il gotico e l'ironico prese di mira anche la "comare secca", sostenendo ch'ella più presto e più crudelmente, come per un'infrenabile eccitazione, colpisce chi più la teme: e che dunque non conviene secondare questa sua predilezione. Egli infatti non la secondò quando, diciassette anni orsono, gli diagnosticarono un microcitoma polmonare che lo avrebbe ucciso in cinque-sei mesi. Si lasciò curare, ma la sfidò continuando a fumare. E divenne un eccezionale caso clinico, che gli oncologi portarono in un congresso scientifico. Era felicemente poligrafo. Saggista (specialmente con l'iniziale L'uomo in allarme, poi con Teologia elettrica e con Il senso del corpo); narratore (il romanzo Giorgio Vinci psicologo vinse il Premio Napoli e fu terzo allo Strega); autore di pamphlet di grande e silenziato successo, come lo Stupidario della sinistra, puntuale raccolta di sciocchezze e sfondoni, che procurò nemici a Mondadori e divertì Alberto Burri; e autore, ancora, di due libri che raccolsero il suo più alto e puro sentimento, L'amore paterno e Federica, morte di una figlia, quest'ultimo del 2008 e dedicato a un rinnovato strazio: la scomparsa repentina d'una figlia quarantenne, dopo la tragica fine di un figlio poco più che ventenne, Gianni, avvenuta negli anni Settanta. Come una torre lo scrittore è svettato nel territorio culturale impropriamente detto "di destra". Però una torre senza ponte levatoio, e benvenuto il confronto: questo era Gianfranceschi, bell'uomo, dritto nella persona, tetragono e lieve al tempo stesso, molto somigliante al suo nome, che poteva evocare auspici marcianti al passo del Gattamelata. Irrideva i salutisti e i cultori del body-building, ma ancora oltre i sessant'anni praticava il surf. E da ultimo, quando era già in vista degli ottantaquattro anni e la salute veniva a mancargli, non aveva rinunciato alle sue passioni: i concerti, il teatro, le mostre e l'antiquariato al quale lo aveva iniziato il padre, anch'egli di quei signori romani innamorati delle cose belle: il padre che gli aveva fatto frequentare il "Massimo", dove c'era da misurarsi con la ratio studiorum dei gesuiti. Poi il suo cattolicesimo finì in ombra nei primi anni Cinquanta, quando anzitutto le letture e le frequentazioni del filosofo Julius Evola e di Massimo Scaligero, studioso di tradizioni orientali e seguace di Rudolf Steiner, offrirono orizzonti di rivalsa, sebbene metafisici e metastorici, a una fila di giovanissimi che "non avevano fatto in tempo a perdere la guerra" e che, come se avessero voluto perderla anch'essi, quasi in vista degli anni Cinquanta progettarono di passare all'azione. Venne poi l'impegno nel Movimento Sociale Italiano, con la fondazione di associazioni studentesche che raccolsero vasto seguito e che vinsero nelle elezioni universitarie in parecchi atenei. Ma la militanza sembrò arenarsi nelle secche della routine politica, e allora sopraggiunse l'impegno culturale. Gianfranceschi piacque all'antifascista Renato Angiolillo, che lo volle a Il Tempo (come volle nel '56 anche alcuni giornalisti che erano usciti dall'area comunista dopo l'invasione dell'Ungheria). E nel Tempo anni dopo succedette a Enrico Falqui e a Carlo Belli nella guida della famosa Terza Pagina, che tenne per oltre un ventennio. Anche sotto la direzione di Gianni Letta e fino al 1988, aprendola a personalità come Augusto Del Noce, Mario Praz, Ettore Paratore, Rodolfo Wilcock; e a giovani collaboratori, com'erano allora, tra gli altri, Franco Cardini, Paolo Isotta, Marcello Veneziani. Del Tempo restò per molti anni illustre collaboratore, finché si ripromise di dedicarsi soltanto ai libri. (Ma chi de Il Tempo lo frequentava, anche ultimamente lo trovava curioso della vita di redazione, che era stata in buona misura la sua vita).