Il «dirizzone» di Gramsci
In una lettera dal carcere definisce la sua vita un errore Dibattito sull'ipotesi di ripudio della fede comunista
Ea quale errore, sbaglio, abbaglio o cantonata intendeva riferirsi Antonio Gramsci quando, in una sua lettera dal carcere datata 27 febbraio 1933, confessò di avere l'impressione che la sua vita fosse stata, appunto, «un dirizzone»? Alla sua fede nel comunismo. Parola del professor Franco Lo Piparo, che in un saggio fresco di stampa «I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista» (Donzelli, pp. 152, euro 16), ha rilanciato la tesi secondo la quale Gramsci, a quell'epoca, il comunismo lo aveva ormai ripudiato. Questa tesi è naturalmente contestata da molti intellos di incrollabile fede comunista. Al cui dissenso ha già dato voce un altro studioso del pensiero di Gramsci, il prof. Guido Liguori, osservando su «il Manifesto» che a dimostrarne l'infondatezza basta il fatto che Gramsci, in quella medesima lettera, «manifesta grande fiducia nella cognata Tania Schucht e in Piero Sraffa, che erano gli anelli di collegamento tra lui, l'Urss e il Pci», ragion per cui «non si può parlare di una rottura con il comunismo», ma semplicemente di una critica e che «rimane sempre interna al movimento nato dalla rivoluzione d'Ottobre». Quale delle due interpretazioni - quella di Lo Piparo o quella di Liguori - è più verosimile e convincente? La parola agli esperti del ramo. Io, che tale non sono, posso solo azzardarmi a segnalare il «dirizzone» al quale mi piacerebbe che Gramsci - ammesso e non concesso che egli, con quel termine, non intendeva riferirsi al crollo della sua fede nel comunismo - abbia realmente alluso. Bene: mi piacerebbe che per lui quel «dirizzone», o cantonata che dir si voglia, fosse quel trattatello di etica che egli espose nelle sue celebri note sul pensiero di Machiavelli, dove affermò com'è noto, che ogni nostro atto deve essere giudicato buono o cattivo, utile e dannoso, virtuoso o vizioso, in base al vantaggio o al danno che può arrecare al Partito. Sicché buone sarebbero soltanto quelle azioni che incrementano il potere del Partito e cattive tutte quelle che lo contrastano. Ragion per cui il Partito avrebbe dovuto prendere, nella testa e nel cuore dei comunisti, il posto di Dio e della coscienza... Ma ecco il passo in cui Gramsci, dopo aver definito il Partito Comunista «il moderno Principe», enunciò questa sua «Etica in nuce»: «Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell' imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume». Si tratta, come si vede, di un'etica in base alla quale non si capisce per quale motivo si stia facendo tanto baccano sulle imprese truffaldine dei diversi eredi dell'ormai defunto Pci. Sono morali o immorali quelle imprese? Per rispondere basterebbe in effetti tornare al Gramsci di quelle note. Giacché li quegli orfanelli apprenderebbero che quel quesito non devono porlo alla propria coscienza. E nemmeno al loro dio. Devono porlo alla loro bottega politica. Che è pur sempre l'erede di un Principe per il quale non solo alcuni milioni di euro ma anche molti milioni di morti, se e quando tornano a suo vantaggio, sono moralmente ineccepibili. Quale splendida esposizione dei fondamenti di ogni possibile Questione Morale! E quanto piacevole è il sospetto che proprio questa promozione del Partito al rango di massimo giudice etico fosse il dirizzone del quale il povero Gramsci aveva, finalmente, preso coscienza!