«Io, figlio di esuli, nato nelle casette al Laurentino»
NicolòLuxardo, industriale del liquore Maraschino, di Zara, ucciso insieme con due fratelli e la moglie Bianca Ronzoni. Centodieci poliziotti di Fiume che dopo l'8 settembre, coi tedeschi padroni della città, si improvvisarono vigili urbani, scomparsi. I senatori fiumani Cilio Bacci e Riccardo Gigante, uccisi con altre undici persone a colpi di baionetta, a guerra finita. Norma Cossetto, 23 anni, studentessa di filosofia a Padova, violentata e gettata viva nella foiba di Villa Surani. Sfoglia l'elenco dei suoi martiri Marino Micich, direttore dell'Archivio Museo Storico di Fiume gestito dalla Società di Studi Giuliani, che ha sede a Roma, al Laurentino. È l'unica raccolta di documenti e immagini sulla persecuzione dei giuliano-dalmati che l'Italia possegga. È nella Capitale perché nel Lazio, e a Roma, s'insediò la fetta più grande di quei 350 mila costretti a scappare - le povere cose issate su un carretto - quando le terre italiane (Istria, Dalmazia e Quarnaro, parte della Venezia Giulia, Fiume, Trieste, Pola, Zara, Ragusa) furono prese dai partigiani di Tito che ne fecero teatro di orrore. Italiani perseguitati perché italiani, fatti sparire nelle foibe con l'accusa d'essere fascisti. Micich è figlio di profughi e la sua storia è il paradigma di storie di gente sradicata dalla propria città e mai risarcita davvero dallo Stato Italiano. «Nel '56 mio padre e mia madre - racconta - vennero via da Zara rasa al suolo durante la guerra perché gli jugoslavi la segnalavano agli anglo-americani come roccaforte di resistenza. I miei avevano cercato di sopportare, legati alla loro casa. Papà era operaio edile, mamma lavorava in una fabbrica di reti da pesca. Ma il giogo dei titini s'era fatto insostenibile. Così quando Trieste tornò italiana e gli jugoslavi riaprirono le frontiere, decisero di andarsene. I nonni no, loro rimasero. La prima tappa dell'esilio fu il campo di smistamento di Udine. Dopo due mesi erano ad Aversa, in provincia di Caserta, uno dei 109 campi profughi disseminati nello Stivale. Ma in quel Sud povero il lavoro non si trovava. E il sussidio dello Stato bastava appena, racconta mia madre, a comprare un litro di latte e mezzo chilo di pane. Allora si trasferirono a Roma. Si stava completando l'Eur, si cercavano edili, c'era pure un alloggio, il villaggio operaio sulla Laurentina, dove ogni famiglia poteva contare su una camera. Io sono nato lì, nel 1960. Ho giocato tra i padiglioni per cinque anni, ascoltando racconti di fuga e speranze di rifarsi una vita. Così quello del Laurentino è diventato il quartiere Giuliano-Dalmata».