Addio al maestro della materia
AntoniTàpies, nato a Barcellona nel 1923 e rimasto sempre fieramente catalano, è scomparso a 88 anni, dopo un periodo di isolamento in cui non voleva rilasciare interviste né incontrare estranei. La Fondazione a lui intitolata, nella sua città natale, per ricordarlo degnamente aprirà oggi gratuitamente al pubblico. Nell'ambito dell'informale, tutta la sua opera, intenta a scavare nelle profondità esistenziali della materia, afferma la verità dell'arte contro le finzioni dell'estetica, a favore di una ricerca «concepita come un meccanismo di autentica illuminazione». Per lui l'arte era inseparabile dall'impegno morale e sociale, era uno strumento di battaglia per non dimenticare gli orrori della guerra e della costante sopraffazione degli uomini su altri uomini. Tra le sue opere più emblematiche e spesso contraddistinte dal simbolo ricorrente della croce c'erano grandi muri in lava e terracotta. Il motivo del muro infatti percorre tutta la sua ricerca, come un destino inciso nel suo stesso nome. Tàpies infatti in catalano significa muro ed era lo stesso artista a ricordarlo: «Curioso destino iscritto nel mio nome! Era come se compissi lo strambo presagio che anni addietro avevo ascoltato da un seguace dell'occultismo che credeva nell'influenza strana esercitata su ognuno di noi dal nome che porta sul proprio carattere e sul proprio destino». Partito alla fine degli anni '40 da suggestioni neo-dadaiste e dall'influenza di Mirò, nel 1950 compie il suo primo viaggio a Parigi conoscendo Picasso e ammirando il suo impegno a tutto campo, soprattutto con «Guernica». Nel contesto di una carriera sfolgorante di grandi mostre e riconoscimenti, dal 1952 partecipa più volte alla Biennale di Venezia dove riceve il Gran Premio per la pittura nel 1993 mentre nel 2003 si aggiudica il Praemium Imperiale giapponese. Nelle sue cosmogonie pittoriche e scultoree, lontane da qualsiasi facile gradevolezza, l'arte era il risultato di una visione spirituale e quasi sciamanica, «legata al carro della sfida vitale, alle unghie di coloro che reclamano giustizia e amore. Un'arte concepita come un aiuto, un sostegno per la necessaria meditazione. Arte come contemplazione, arte come azione», come ha scritto lui stesso. Ecco il testamento impresso a fuoco nelle sue opere per trasformare il mondo «in un gran tempio della realtà più povera e più anonima». Gabriele Simongini