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di Gabriele D'Annunzio Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di febbraio, un plenilunio favoloso, di non mai veduto lume.

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Laneve copriva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un'opera di ricamo più leggera e più gracile d'una filigrana che i colossi ammantati di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva a similitudine d'una selva immobile di gigli enormi e difformi, congelato; era un orto posseduto da una incantazione lunatica, un esanime paradiso di Selene. Muta, solenne, profonda, la casa dei Barberini occupava l'aria: tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi gittando un'ombra cerulea, diafana come una luce; e quei candori e quelle ombre sovrapponevano alla vera architettura dell'edifizio il fantasma d'una prodigiosa architettura ariostéa. Un orologio sonò da presso, nel silenzio, con un suono chiaro e vibrante; e pareva come se qualche cosa nell'aria s'incrinasse a ognun de' tocchi. L'orologio della Trinità dei Monti rispose all'appello; rispose l'orologio del Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi. Qualche vettura, senza alcuno strepito, discendeva per le Quattro Fontane verso la piazza o saliva a Santa Maria Maggiore faticosamente; e i fanali erano gialli come topazi nella chiarità. Pareva che, salendo la notte al colmo, la chiarità crescesse e diventasse più limpida. Le filigrane dei cancelli riscintillavano come se i ricami d'argento vi s'ingemmassero. Nel palazzo, grandi cerchi di luce abbagliante splendevano su le vetrate, a simiglianza di scudi adamantini. La piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore, solitaria, raggiante come un'acropoli olimpica su l'Urbe silenziosa. Gli edifizi, intorno, grandeggiavano nel cielo aperto; l'alta porta papale del Bernini, nel palazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista distaccandosi dalle mura, avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza difforme, dando imagine d'un mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di su le colonne transfigurati da le strane adunazioni della neve. Divini, a mezzo dell'egual campo bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le cose. Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s'allargavano nella luce; le groppe ampie della fontana, e lo zampillo e l'aguglia salivano alla luna come uno stelo di diamante e uno stelo di granito. Una solennità augusta scendeva dal monumento. Roma, dinanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell'architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d'una immaterialità inesprimibile, simili forse ad orizzonti d'un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d'un qualche astro semispento abitato dai Mani. La cupola di San Pietro, luminosa d'un singolare azzurro metallico nell'azzurro dell'aria, giganteggiava prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovani Eroi cignigeni, bellissimi in quell'immenso candore come in un'apoteosi della loro origine, parevano gl'immortali Geni di Roma vigilanti sul sonno della città sacra.

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