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Non c'è soltanto amore nel legame tra genitori e figli

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Questofluviale libro fa viaggiare, tra fantasmi e figure vere, in un labirintico itinerario memoriale, ora chino sul funzionamento di una fitta registrazione di eventi, però dissipando l'«accaduto», ora aperto alle esigenze di un piano volto a penetrare nelle radici delle «esperienze personali». Stefano Pirandello «vuole raccontare un fatto vero», non custodirne in modo sacrale il ricordo. Il suo fervido laboratorio di scrittura, esaltato da riflessioni sulle stesure, crea una pagina a più livelli, denotativa e folgorante in frantumi accesi, distesa nei raccordi mobili fra le parti, con ponti e arcate di suasiva, rapinosa procedura analogica, e stravolgente nell'interrompere ogni continuità fluida e nell'innescare associazioni sottili, slarghi improvvisi e misteriosi, spazi bianchi eloquenti e perentorie violazioni della tenuta organica di un paesaggio «giorgionesco» (a detta della Muscarà), della sua dimensione parabolica. L'attenzione è sulle cose, le governa e le squaderna, con regolarità e senso delle simmetrie: ma d'un tratto un scossa tellurica distrugge immagini e proporzioni; o piega in soluzioni sibilline. Il centro dell'interesse non è più al suo posto ma altrove, scheggiato e quasi irraggiungibile, occhieggiante, dotato di una ritrovata forza propulsiva e irradiata nel difficile, velleitario sforzo di identificare l'esistenza con l'arte. Non intende portare un contributo di annotazione esplicita il commento che si insinua fra le righe: comanda in modo discreto ma eversivo, protegge le anomale successioni dei quadri, le angolature spigolose. Il suo indice è l'irrequietezza del testo che sembra indicare un compasso sempre diverso di sguardo. E si rientra nell'obliquità di scene le quali, pur continuando a mantenere un suasivo impianto di costruzione solida, dosaggi articolati dei tempi dei dialoghi e delle azioni, sono visitate da presenze fluttuanti, oniriche, da riemersioni dell'inconscio, da rispondenze verniciate di un baluginante primitivismo romantico e, soprattutto, da storie che si mischiano con altre storie, in una dinamica, inarrestabile proliferazione da cui promana uno stigma di modernità tecnica e stilistica degna di un agguerrito metaromanzo e di un progetto di manipolazione in cui maggiormente preme lo «sbaraglio» di «gettarsi a inventare». Protagonista e specchio dell'autore è lo scrittore Simone Gei, seguìto nella sua fatica di redigere un racconto composito, polarizzato da dati individuali e pubblici e incentrato sull'albanese Selikdàr Vrioni in fuga dalla sua terra per approdare in un'Italia fascista, avvampata dal mito del colonialismo. Intanto, nel fermento di idee, prospettive sociali, mutamenti di generazioni, pulsioni di culture nuove, si presentano innumerevoli volti famosi del tempo, riversati in un ritmo narrativo distonico, spinoso, celere e centrifugo e pausato, fermo nell'ossessiva replicazione dei temi dominanti, di un autobiografismo macerato, ma deviato senza attriti verso gli stupori delle digressioni, oppure parcellizzato nelle tessere dell'affresco di un'epoca, e declinato nelle ferite inferte dai retroscena familiari più dolenti. Romanzo di citazioni dirette, criptocitazioni, alimentato da cascate di fonti culturali, letterarie, filosofiche e politiche, «Timor sacro» convoglia nel suo «effetto nebbia» (esemplare la definizione della curatrice) tutte le infinite, drammatiche sollecitazioni vibrate dal Leitmotiv lacerante della distanza dal padre: l'angoscia di Stefano di fronte all'invadente ombra di Luigi, della sua totalitaria fama, della prepotente sua personalità. Repentini innesti di insospettabili percorsi, variazioni timbriche e tonali, tagli bruschi di capitoli che sembrano voler suggerire vuoti da colmare, esaltano le potenzialità segrete pure di alcuni nascosti meccanismi narrativi più canonici: e le ruvidezze linguistiche divengono esche per una trasfigurazione che tiene contemporaneamente conto di creature «grondanti di umanità». Certe approssimative definizione di stati d'animo si contorcono in pieghe profonde destinate a esiti imprevedibili, in una pagina che sta davanti al suo autore «in luce solare affascinante». Una tensione fibrillante spinge le figure allo sforzo impervio di pedinare verità e chiarezza attraverso «una sofferenza che vuol sottrarsi al destino». Irrompono gli itinerari della fantasia o la modifica di atteggiamenti comuni e, soprattutto l'uso dinamico, talora oltranzistico, della frase e delle sue eccentriche catene. La parola lavorata è sempre in attesa di aperture metafisiche, della «scoperta del silenzio», della «ricchezza di ogni scoperta sincera». È la scacchiera delle allegorie, delle personificazioni alterate, dei lampeggiamenti di un gesto, delle strategie di un'invenzione inesauribile: pronta ad alimentare il libro che «traversa la vita e va oltre», corteggiando gli «inganni dei sensi e la "scienza reale» in un gomitolo dai mille fili, riavvolto all'infinito, in una «configurabile incommensurabilità» e capace di trasformare in avventura il più ostico, glaciale ragionamento, come quello sul fuoco che «brucia nell'aria». E, ovunque, «tanta vita tumultuante», sotto la vitrea lastra del sorriso.

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