di Gian Luigi Rondi Il cinema greco "era" Theodoros Angelopoulos.
Lui,però, era riuscito a distinguersene a tal segno di farsi considerare l'unico nel suo ambito, e, comunque, il più innovatore. Fino all'ultimo mai superato. L'ho conosciuto nel '75, dopo aver visto premiare dalla critica a un festival di Cannes un suo film-rivelazione, "La recita" (1974). Non era un esordio perché si sapeva che la sua opera prima, "Ricostruzione di un delitto" (1970) aveva avuto una menzione a un festival di Berlino ed era stata seguita da un secondo film, "I giorni del '36", che però nessuno in Italia, come l'altro, aveva ancora visto. Il tema era una decina d'anni di storia greca vista attraverso le vicissitudini di una compagnia teatrale di giro in cui, simbolicamente, si riproponeva il mito degli Atridi. La cifra estetica, e qui era la novità, la sorreggeva un linguaggio figurativo che, ad ogni immagine, si faceva stile grazie a ricerche compositive di fluente drammaticità: a cominciare dall'uso intelligente e personalissimo dei "piani sequenza" per poter adeguamente visualizzare sullo schermo la tragedia classica, anche là dove vi si faceva riferimento solo attraverso i casi di personaggi moderni. La cifra "morale" era una polemica vibrata, anche se data solo di riflesso a causa della censura, contro le oppressioni che dalla dittatura di Metaxas in poi avevano tentato di strangolare in Grecia quella libertà di cui Angelopoulos si era fatto paladino con tutta la sua attività nel cinema. Me lo chiarì, appunto, in occasione del nostro primo incontro quando ormai, dopo il successo della "Recita", si cominciava a guardare a lui come all'unica voce "libera" che ci arrivava dalla Grecia. Gli chiesi dei riferimenti alla storia greca che il film sembrava proporre. "Intanto - rispose - quelli degli «anni terribili» della Grecia dal '39 al '52, da Metaxas a Papagos, ma si possono anche leggere attraverso la composizione stessa della compagnia teatrale di girovaghi. C'è la destra, c'è la sinistra, c'è la maggioranza silenziosa. la storia nasce dal conflitto fra la sinistra e la destra. La maggioranza silenziosa sta alla finestra e, per decidere, cerca prima di vedere come vanno le cose". Non avendo ancora visto i suoi film precedenti, volli sapere come "La recita" si collegasse a quelli. "Alla "Recita" - mi disse - sono arrivato dopo "Giorni del '36". Un tema analogo, ma, attorno, una maggiore libertà per esprimermi. Oggi, ad esempio, se dovessi rifare quel film lo rifarei in modo del tutto diverso e, forse, finirebbe per somigliare alla "Recita". Si tratta ancora, comunque, di una libertà un po' relativa. "La recita" in Grecia, mentre noi ne stiamo parlando, non è ancora uscita e sento, anzi so, che darà molto fastidio. A certa gente, il tema della guerra civile non va giù, forse per un complesso di colpa, e allora vorrebbero che la si mettesse da parte, che la si dimenticasse. Ma non dobbiamo dimenticare. Dimenticare - concluse - vuol dire correre il rischio che il passato ritorni. E invece non deve ritornare". Continuò su quella linea, stilisticamente e moralmente. Dopo "La recita", con "I cacciatori" (1977), concluse la trilogia iniziata con "I giorni del '36" affrontando con forti tensioni polemiche ma anche figurative la storia del suo Paese dal dopoguerra fino a quei giorni, facendola scaturire dalle vicende di un gruppo di borghesi alle prese con un "cadavere nella stiva" da eliminare presto per quieto vivere. Da quel momento il suo cammino non conobbe più soste, arrivando, ad ogni film, a proporre tappe nuove, sia nell'ambito della lingua del cinema, sia tra le pieghe di un'osservazione della società, non solo greca, di quegli anni di cui, ormai, mutate le condizioni politiche nel suo Paese, poteva dire con riferimenti scoperti, precisi e forti nello stesso tempo. Passò perciò da una parafrasi tutta respiri larghi del socialismo in "Alessandro il grande" (1980), Leone d'oro a una Mostra di Venezia, all'odissea solo privata di due bambini nel poetico "Paesaggio nella nebbia" (1988), al duetto quasi funebre tra Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau nel "Passo sospeso della cicogna" (1991). Ripercorrendo, attraverso i Balcani, le tracce del cinema di ieri nello "Sguardo di Ulisse", non a caso premiato in quel 1995 in cui, appunto, si celebrava il centenario dell'invenzione dei Lumiére. Con un solo, costante rammarico, quello che, dopo il Leone d'oro per "Alessandro il grande" (un film, comunque, per la TV), pur essendosi regolarmente proposto ai festival internazionali con i suoi film, se lo premiavano, era sempre con premi anche di rilievo, ma non tra i primi. Con il rischio - mi disse con amarezza durante un festival di Cannes - di arrivare sempre "secondo". Tanto da pensare, in avvenire, di non scendere mai più in concorso a nessun festival. Un'amarezza giustificata perché, anche se il cinema cammina e alle giurie dei festival la poesia di Angelopoulos non sembrava forse più né rivoluzionaria né innovatrice, il suo contributo alla storia della Settima Arte negli ultimi trent'anni del Novecento era stato sicuramente dei più illuminanti, ed anche irripetibile. Come aveva dimostrato, del resto, anche a quelli che non lo avevano voluto capire fino in fondo, quel suo film dell'84, "Viaggio a Citera", che, nonostante i consueti ritmi lentissimi e delle immagini spesso immobili tenute a lungo per descrivere il tempo reale, affascinava senza un attimo di sosta: con le tensioni vive della poesia più autentica e profonda. Un film coinvolgente e struggente in cui l'arte di Angelopoulos quasi si sublimava nella rappresentazione dei sentimenti. Presentato a Cannes, da una giuria presieduta da un'attrice, Isabelle Huppert, si vide attribuire solo un premio alla sceneggiatura, (cui aveva posto mano, ancora una volta, il nostro Tonino Guerra). A conferma del risentimento di un autore che, in quell'occasione, aveva visto assegnare la Palma d'oro a "Paris-Texas" di Wim Wenders, obiettivamente comunque di salde qualità. Ora se n'è andato. E probabilmente con quel cruccio in cuore di essere quasi sempre arrivato "secondo". Da adesso però ci penserà la storia del cinema. Pronta a decretargli ogni priorità. Oggi, comunque, dopo la Palma d'Oro nel 1998 a «L'eternità e un giorno», riconosciuta da vari festival, a cominciare appunto da quello di Cannes che già nel 1995 aveva attribuito il Gran Premio della Giuria al suo «Sguardo di Ulisse».