Al Teatro dell'Opera «Candide» musicato da Bernstein L'Europa può imparare molto dall'ironia critica del filosofo
Lofaceva da intellettuale, poco fidandosi degli umori del popolino. Invece era dell'idea che una monarchia illuminata e laica, fuori dalle nebbie del clericalismo, avrebbe ben orientato il futuro dell'Europa. Un illuminista liberale. Al quale l'ipotesi di un Continente economicamente unito, dove sovrani costituzionali fossero consigliati dai filosofi moderati quale lui era, non sarebbe dispiaciuta. Attenzione però. Appunto da liberale, il Nostro teneva in massima considerazione l'attitudine alla critica, alla ricognizione consapevole dello stato delle cose. E allora gli sembravano inammissibili le tronfie sicurezze di un altro filosofo, Gottfried Leibniz, ovvero quell'ottimismo all'ennesima potenza che si tappava gli occhi di fronte a ogni crepa della politica, dell'educazione, dell'economia. Vigilare, discernere, capire, ecco l'imperativo categorico di Voltaire, per dirla con Kant. E però con quell'esprit de finesse che l'aria di Parigi faceva respirare. Così per attaccare i parrucconi acritici alla Leibniz usa l'arma dell'ironia. Nasce da qui il suo capolavoro, quel Candide ou l'Optimisme - metà romanzo metà saggio - che disegna nell'insegnante Pangloss e nel discepolo Candido (nome omen) la coppia tanto buffa quanto perniciosa che può mandare il mondo in malora. C'è Leibniz, il filosofo delle monadi e dell'armonia prestabilita, dietro Pangloss, il quale per giustificare la sua e l'altrui esistenza non fa che proclamare la convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili. C'è il popolino ondivago e ingenuo in Candido, al quale conviene di credere nella felicità. E invece quanti guai sono in agguato, come ha ben provato Voltaire, malato, esiliato in Inghilterra, perseguitato dalla monarchia intransigente di Parigi, sconvolto nel 1755 dal terremoto che distrusse Lisbona. Già improbabile perché troppo zuccherosa la cornice che dà il via alla storia: un castello in Vestfalia, «splendido» perché «dotato di porte e finestre» e proprietà del barone Thunder-den-Tronck «il più grande signore della provincia e perciò del mondo». L'iperbole continua perché la figlia del nobile tedesco, Cunegonda, è bella da morire e Candido se ne innamora. Anzi, la bacia ma sorpreso dai genitori della fanciulla viene espulso dal mondo dorato e comincia a vagare, mentre il maniero è attaccato dai bulgari e solo Cunegonda si salva. Il resto della storia è nel peregrinare di Candido alla ricerca dell'amata: da Lisbona al mitico El Dorado e fino a Costantinopoli, dove si sigla il lieto fine: Candido ritrova Pangloss e la sua bella, l'amico Cacambò e il frate Giroflée che s'è convertito all'Islam. Vivranno tutti insieme felici e contenti in una fattoria, intenti a «coltivare il proprio giardino». Avremo da pensare alle ambasce odierne - con la Vecchia Europa che traballa dopo una sbornia di benessere durata dieci anni, con l'euro più forte del dollaro - ripassando l'avventura di Candido che va in scena in forma di operetta al Costanzi di Roma. Ci leggeremo dentro l'insipienza dei politici, convinti di indovinarla sempre e di essere sempre impuniti a fronte di madornali errori. Ci troveremo la svalutazione della ricchezza adombrata da El Dorado, dove le pietre preziose e l'oro sono considerati fango. E che dire dell'epilogo, nel quale al nostro continente i protagonisti preferiscono l'islamico Medio Oriente? Dice di «Candide» e della lezione di Voltaire il filosofo liberale Dario Antiseri: «L'ironia può svelare più verità di un trattato. E Voltaire dimostra che non avevano torto gli antichi romani con il motto castigat ridendo mores. L'illuminista non condivideva né il pessimismo di Pascal, che pure stimava tanto da chiamarlo il sublime misantropo, ma neanche l'ottimismo di Leibniz, ovvero la prospettiva che giustifica tutto e non spiega niente». Ma insomma, Candido che cosa insegna ai cittadini? «Che il mondo non è né inferno né paradiso. È quello che è, pieno di problemi. Bisogna guardarli in faccia e impegnarsi nella loro soluzione. Nell'epilogo il musulmano dice "coltiviamo il nostro giardino". Allora, invece di sprofondarci in mondi utopici, nell'evasione dalla realtà - nell'utopista sonnecchia un vecchio capitano di ventura - cerchiamo continuamente il modo di sbrogliare i nodi contigenti e storici». Eccola, per Antiseri, la via da imboccare: «Opporre al pensiero che giustifica quello che comprende e agisce. Guai a passare su errori ed orrori storici, e penso alla Shoà. Invece, essere critici. Perché razionale non è il medico che per salvare la diagnosi uccide il paziente ma colui che per salvare il paziente uccide, ovvero elimina, le diagnosi sbagliate e arriva a quella buona. E con Popper dico che non è razionale l'uomo che vuole avere ragione ma quello che impara dalle proprie defaillances e da quelle altrui».