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di Gino Agnese «Io nacqui da una donna che cantava/ nel rimettere in ordine la casa».

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Aibei tempi le case avevano finestre aperte la mattina, e le madri lasciavano nei figli gioiose tracce canore, incancellabili negli anni. Sicché, infine, si poteva accompagnarle all'ultima dimora scrivendo sul ricordino, per esempio: «I tuoi doni tanti/ primi il sorriso e i canti». Né erano da meno i papà, che davano il meglio del loro repertorio radendosi davanti allo specchio di buonora. Insomma, gl'italiani si divertivano a cantare e a suonare, e la musica in qualche modo la «facevano». In ogni contrada c'era una corale, in ogni paesino una banda, in ogni banda un contadino, un avvocato, qualcuno che aveva imparato a leggere gli spartiti. Clarini, trombe, tromboni, grancasse. Nelle città, violino, chitarra o mandolino, fisarmonica. E per i più abbienti il pianoforte. Si cantava e si suonava. Mentre noi adesso, per lo più, la musica l'ascoltiamo. O soltanto la sentiamo. O talvolta la subiamo, come i «fumatori passivi» il fumo. Si obietterà: «Ma le madri la mattina non stanno più in casa, escono per andare a lavorare. Poi, tutti abbiamo fretta». Sì, è vero, ma c'è dell'altro. Intanto, c'è che oggi siamo l'unico, tra i paesi «avanzati», che non dà la dovuta importanza all'insegnamento musicale. E allora, che ne sarà della musica «alta»? Quirino Principe, grande musicologo, ha scritto al presidente Napolitano: «Nelle sale da concerto si vedono specialmente "teste bianche". E domani? Saranno vuote?». Eppure, per lo splendido Settecento, per l'Ottocento dell'opera lirica, per la canzone napoletana classica, forse anche per qualche gioiello recente della musica leggera italiana, siamo ancora creduti nel mondo «il paese della musica». E con buona ragione. Perché, come nessun altro paese, mettemmo tutto in musica. La Natività col «Tu scendi dalle stelle...» di Sant'Alfonso de' Liguori napoletano, gli amori, le utopie degli anarchici, gli ardori risorgimentali, il lavoro, le passioni politiche, le guerre. Al riguardo, ecco un bellissimo, circostanziato libro di Vittorio Paliotti: «L'Italia chiamò», Franco Di Mauro Editore, 190 pagine, 15 euro. Un libro che racconta e dimostra come specialmente i canti e le musiche d'ispirazione politica e civile hanno costituito la straordinaria colonna sonora della vicenda nazionale: dai primi fermenti unitari, che si manifestarono a Napoli nel 1820 e a Milano nel 1821, e fin quando l'accelerata espansione dell'ascolto musicale, nel secondo dopoguerra, non cominciò a soppiantare la pratica e la creatività musicale capillarmente diffuse. In principio furono i motivetti repubblicani e i «canti patriottici». Gli uni nascondevano in allusioni e doppi sensi l'insofferenza verso i Borbone o i Savoia, gli altri dichiaravano scopertamente l'opzione unitaria. E questo è il caso, per esempio, di «Va' pensiero» e dei «Lombardi alla prima crociata», musicati da Verdi. Come pure è il caso del «Canto degli italiani» (ovvero Fratelli d'Italia) scritto dal ventenne Goffredo Mameli nel 1847 e messo in musica dal maestro Novaro. Sorprenderà, ma per molti anni quel Canto, divenuto nel 1946 inno della Repubblica, non volò alto, non ebbe fortuna. «La Canzone del Piave», di E. A. Mario, fu molto più popolare: al punto che i nostri uomini di Governo in visita all'estero venivano accolti con quel canto. De Gasperi, allora, fece giungere a E. A. Mario un suo desiderio in forma di commissione: che componesse un inno della Democrazia Cristiana. (Bianco fiore o non c'era, in quel dopoguerra, o la sua fiacchezza non aveva presa). E. A. Mario gli fece sapere che egli non eseguiva lavori su commissione, ma soltanto versi e musiche scelti dal suo sentimento. Invece, nel 1956, quando alcuni ragazzi esponenti di un'associazione studentesca che promuoveva manifestazioni di solidarietà con i patrioti di Budapest invitarono il poeta e musicista a partecipare a un comizio, disse di sì. Ecco qualcosa che dice dell'animo dell'autore di «Tammurriata nera», «Vipera» e «Canzone appassionata». Vittorio Paliotti - storico della canzone napoletana, romanziere, commediografo e giornalista - ha calato i «canti patriottici» e gli altri canti nei contesti che li accolsero, ricostruendo gli scenari con una precisione meticolosa e spargendo nelle pagine i sapori di argute notazioni. Qualcuna? Siamo nel 1858 e Cavour ha saputo che sta per essere lanciato un Inno di Garibaldi. Conterrà forse un sibillino messaggio repubblicano? Il conte è in sospetto e sguinzaglia allora sbirri e confidenti. Ma infine si acquieta, Si scopron le tombe, si levano i morti/ i martiri nostri son tutti risorti non pizzica re Vittorio né Casa Savoia. Dunque, nessuna censura. È uno zelo che si può capire quello di Cavour. Ogni fronda, ogni ironia avrebbe danneggiato il disegno finale e disturbato l'entusiasmo. Forse per questo cadde il silenzio sulla scadente qualità musicale e sulle povere strofe della Marcia Reale, che si trovò a competere con l'austriaca Marcia di Radetzky, del celebre Johann Strauss. E forse perciò fu messa la sordina sulle frivole origini della tuttora Poi venne unq amatissima Marcia dei Bersaglieri, che è «figlia di palcoscenico», poiché il maestro Giorza la musicò limitandosi a riutilizzare una sua composizione che già aveva elettrizzato, alla Scala, le ragazze del balletto «Flik Flok» sulla passerella conclusiva. Canti e musiche di svariato patriottismo accompagnarono le vicende belliche del Novecento. Anzi: nessun paese ha avuto tante «canzoni di guerra» quante ne abbiamo avute noi. Si cominciò già sull'onda emotiva sollevata nel 1887 dal massacro di Dogali, dove cinquecento soldati italiani invano si difesero da forze africane ben più numerose. Poco dopo fu costituita la prima colonia, l'Eritrea, che presto divenne uno stimolante orizzonte oltremarino per l'immaginazione nazionale. Nel 1894 il poeta e drammaturgo napoletano Roberto Bracco (di sentimenti socialisti) scrisse una canzone: e fu l'avvio di un seriale «pentagramma africano» che, di anno in anno, attrasse parecchi autori. La intitolò Africanella. Raccontava dell'amore di un soldato napoletano per una ragazza eritrea: «Io tengo 'na medaglia/ ch'avette p' 'a battaglia/ e tengo 'na bannera/ cu 'na faccetta nera». Incontrò successo, ma non quanto ne ottennero «A Tripoli» e «Faccetta nera», che nel 1911 e nel 1935 accompagnarono le guerre di Libia e d'Etiopia. Poi venne una serie di composizioni suggerite da fatti d'arme, ma anche da atmosfere di guerra, della quale si è perso il conto, e che si esaurì soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Baldanza, fierezza, struggimento, allegria, nostalgia, tenerezza, affetti, questi e altri gl'ingredienti d'innumerevoli canti e musiche che infusero coraggio a marinai, sommergibilisti, aviatori, alpini, paracadutisti, bersaglieri, etc. Altri canti offrirono speranza o conforto ai bimbi e alle mogli di soldati lontani: e di fatto, tutto quel canzoniere ebbe un ruolo tutt'altro che trascurabile non soltanto sui fronti delle guerre d'Africa e poi su quelli dei due conflitti mondiali, bensì anche sul «fronte interno» per la naturale funzione aggregante, e non soltanto banalmente consolatoria, di quegl'innumerevoli canti.

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