di Lidia Lombardi Henry James, l'autore di «Ritratto di signora», svernò a Roma tra il 1872 e il 1873.
Uninnamoramento filtrato però da sensi di colpa. Roma non era solo la meta obbligata del grand tour. Per James e per tanti giganti della letteratura a lui contemporanei - come Hawhtorne - l'Italia e la sua capitale fresca fresca erano il posto nel quale dare alla formazione pragmatica e rigorosa di un borghese protestante un retroterra culturale tanto vasto e lontano nei secoli da spaesare. «Finalmente, per la prima volta vivo!», esclama lo scrittore dopo aver messo piede nella città antica e nuova, capace di alternare i ruderi bruniti ai cantieri tirati su dai re piemontesi, che creavano enormi strade e piazze abbattendo casette e vicoli e costruivano palazzi per i ministeri e i ministeriali importati da Torino. Lo ricorda Giulia Alberico nella prefazione al romanzo romano di James, «Daisy Miller», ora ripubblicato da Lozzi nella collana «L'altro modo di raccontare Roma». E la storia della giovane americana che passa dalla verde svizzera al buio delle notti romane dentro al Colosseo («È così maledettamente buio qui, non si vede nulla di notte tranne quando c'è la luna. In America la luna c'è sempre», commenta uno dei protagonisti) replica un po' il sentimento di James nella città dei Cesari. Roma lo affascina. Ma è come se lo trascinasse in un imbuto. Solare e scura, allegra e marcia, aristocratica e popolare. Seducente e capace di condurre alla perdizione: morale e fisica, sottintende il puritano Henry. E infatti la leggiadra Daisy, seguita dalla Svizzera alla Città Eterna da uno yankee conosciuto per caso che si rivela presto una sorta di pigmalione-spasimante, si ammala di malaria dopo le strane passeggiate notturne al Colosseo. Maestoso e acquitrinoso al tempo stesso, in una città che già diventava campagna. Daisy ci muore, a Roma, insieme veleno ed elisir. E il romanzo si chiude col mesto rito davanti alla sua lapide, nel cimitero acattolico a ridosso di un altro enigmatico monumento antico, la Piramide. James no, non si ammala, a Roma. Ma insomma, se ne sente stregato, complice. Talvolta in simbiosi, talvolta turbato. Sfugge dai vicoli, da Trastevere, dal Ghetto. Preferisce la mole delle basiliche, i Fori, Villa Borghese e Villa Medici, guarda la città dall'alto del Celio. Si stupisce delle vie colme di «sfaccendati» sotto il sole afoso. Frequenta il conte Giuseppe Napoleone Primoli, il discendente romano dei Bonaparte, e tramite lui Matilde Serao e Gabriele D'Annunzio, in serate mondane ai caffè, in mattinate al Pincio. Stringe amicizia con lo scultore Hendrik Christian Andersen. Rapporto intensissimo, forse liaison. Ambigua, come Roma.