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L'altra faccia dei Musei Vaticani

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Non solo il Laocoonte e i capolavori della classicità Le logge celano i tesori dell'arte religiosa moderna

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Epoi? Le opere classiche dell'antica Roma e quelle esotiche del Museo Missionario-Etnologico. Eppure questo scrigno dell'arte universale, quasi inaspettatamente, cela capolavori non sempre noti al grande pubblico e, spesso, persino a quello dei cultori: le collezioni di arte contemporanea. Il 7 maggio del 1964 Paolo VI convocava nella Cappella Sistina il mondo artistico contemporaneo con l'intenzione, diciamolo pure, di riconquistare alla Chiesa l'arte degli ultimi due secoli, per lungo tempo ostracizzata dalle storiche collezioni dei Musei papali. Le sue parole, pur sempre soppesate, furono allora pesanti come macigni tanto che nel rivolgersi agli artisti in sala ebbe a dire: «Vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, di mille idee e di mille novità», e proseguiva: «Vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi a surrogati, all'oleografia, all'opera d'arte di pochi pregi e di poca spesa, e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l'arte e la bellezza e - ciò che è peggio per noi - il culto di Dio sono stati male serviti». Si trattava di riflessioni che arrivavano al termine di un processo cominciato già alcuni anni prima con il principe Pacelli - Pio XII - che aveva intuito lo spirito del cambiamento e aveva creato varie commissioni atte a stilare liste di artisti e di opere d'arte contemporanei giudicati idonei per far parte delle collezioni pontificie. Una decisone, quella di Paolo VI, che innescava un vespaio di polemiche - atroci persino - come l'incendiario articolo di don Carlo Richelmy apparso nel marzo del 1957 su «Rotosei»: «Il Papa farà entrare i futuristi e i cubisti». In cui si condannavano le «croste» di un Matisse o di un Braque nell'immaginarle - abominio!- accanto a un capolavoro di Raffaello, per una svolta museale «tanto scema quanto demagogica». Le idee di papa Montini, tuttavia, erano già molto chiare quando nel 1931 scriveva in un articolo sulla rivista «Arte Cristiana» e intitolato «L'arte sacra futura»: «La nostra età è l'età della scienza, della critica, della storia, dell'essenziale. L'arte sacra si affranca da ogni vincolo puramente formale al passato che più non lo sovrasta, che più non le intima imitazioni manierate». E così nel 1973 la Collezione di Arte Religiosa Moderna (Oggi riunisce circa ottocento opere di circa 250 artisti di tutto il mondo) entrava a pieno titolo nei Musei Vaticani ed era aperta al pubblico. Ad ospitarle era l'Appartamento Borgia per snodarsi fino agli ambienti sottostanti la Cappella Sistina. Dalle mostre d'arte nazionali e internazionali affluivano man mano i capolavori di Boccioni (La Madre), Carrà (Le figlie di Loth III), Martini (Il Buon Pastore); o venivano aperti al pubblico spazi come la «Cappella della Pace» di Manzù. E decine poi gli artisti stranieri da Manessier a Munch, da Bacon a Shahn in un abbraccio tra Espressionismo astratto e Pop Art. Voglio segnalarvi in questi giorni ancora festivi, per alcuni, una delle ultime grandi novità inaugurata lo scorso giugno, la Sala Matisse, interamente dedicata ai bozzetti preparatori della Chapelle du Rosaire di Vence, in Provenza, a cui l'artista dedicò gli ultimi anni di lavoro, dal 1948 al 1952. Una collezione che arricchisce il già preziosissimo nucleo di opere di Henri Matisse entrato in Vaticano nel 1980 grazie alla donazione del figlio dell'artista, Pierre. È un insieme unico, una delle maggiori collezioni del genio dei fauvisti in Europa e in Italia. Da non perdere il cartone preparatorio a grandezza naturale per le ceramiche del presbiterio della cappella delle Suore Domenicane di Vence (Nizza), raffigurante «La Vierge à l'Enfant» e i «papiers découpés» per le tre splendide vetrate policrome dell'abside, del coro e della navata. Mi spiegava il direttore Antonio Paolucci: «Con l'inaugurazione della sezione Arte Religiosa Moderna realizzata per volere di Paolo VI, sotto la supervisione di Mons. Pasquale Macchi, possiamo dire che i Musei Vaticani hanno raggiunto il loro aspetto definitivo dimostrando al mondo l'identità della Chiesa Romana Cattolica; e questo proprio in un'epoca di oscuramento dei significati, di vero e proprio "black-out semantico"». E proseguiva: «Paolo VI era consapevole del divorzio doloroso e apparentemente irreversibile che da quasi due secoli si era consumato tra l'universo cattolico e le arti figurative. Eppure giocò d'azzardo, tese ponti rispettosi e sinceri verso gli artisti, creò le premesse per un dialogo che non si è più interrotto e sembra fruttificare ai nostri giorni».

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