Sergio Zavoli, quel bambino che sognava in Technicolor
Perchi si occupa di informazione Zavoli è «il senatore», l'ex direttore e presidente di un po' di tutto (Rai compresa), nonché autore di numerosi importanti testi. Per una volta ha voluto lasciare la penna dello storico, di colui che narra e spiega l'Italia e raccontarci un po' di se. È arrivato nelle librerie «Il ragazzo che io fui», appunto di Sergio Zavoli, Mondadori, euro 18,50, 261 pagine, disponibile su e-book. I conti sono presto fatti: Zavoli è del '23, è uno di quelli ai quali non è stato risparmiato nulla: la scuola fascista, il balilla, la propaganda, la guerra... Eppure sa raccontare tutto con serena, scanzonata poesia. Sergio Zavoli a 88 anni affronta i suoi ricordo un po' come in un film di Fellini (di quelli migliori, d'altronde sono tutti e due cresciuti a Rimini). A 88 anni ripercorre il passato senza un pizzico di retorica, con gli occhi curiosi di un ragazzino delle elementari. Ma soprattutto guarda sempre al futuro, raccontando la sua vita al nipotino Andrea e facendo, di questo racconto, una specie di favola. Ma non bisogna farsi ingannare dal termine «favola». Non c'è sempre il lietofine: il racconto di Zavoli è come certe favole nordiche, di quelle che incantano, ma fanno anche paura. Il libro di ricordi di Zavoli parte dal 1929 quando, appunto, svelò alla famiglia di «sognare a colori», insomma con i prati verdi e il mare blu. Ma questo in un'epoca nella quale sognare non era considerata una fascistissima attività. Anzi, era una cosa possibilmente da evitare: meglio lanciarsi nel cerchio di fuoco con il pugnale tra i denti. Ma il bambino Zavoli non si lasciò impressionare dai carillon di regime e mantenne quello sguardo «a colori», che si porterà dietro tutta la vita. Attraverserà il fascismo e la guerra il bambino Sergio, tra bombardamenti e fughe diventerà un ometto. Con il pallino, o forse la fissazione, o addirittura la malattia, dell'informazione. Non sarà un'infanzia facile ma, nel leggere quelle pagine, si può immaginare che sia stata costruttiva e feconda. Perché un buon seme deve sempre saper germogliare nella terra che trova, anche se, magari, è un po' troppo nera. E un bel giorno, più o meno alla fine dei Quaranta, il giovane Sergio si trovò a parlare ad un microfono, residuato bellico di Radio Tripoli. Il microfono diffondeva in città, appunto Rimini, con altoparlanti appesi qui e là, la voce del giovanotto che faceva la radiocronaca del derby Ravenna-Rimini. L'improvvisato radiocronista, intanto, veniva incessantemente bersagliato, dal pubblico pagante e non, da oggetti di ogni genere. I derby di calcio, ora come allora, sembravano autorizzare chiunque a fare qualunque cosa e le parole fair play ancora non erano state inventate. Di certo fu una sofferenza, ma fruttuosa, perché il gracchiare di uno di quegli altoparlanti arrivò all'orecchio di un ingegnere in contatto con la Rai. Quello chiamò Roma e disse: «Qui a Rimini c'è uno che forse può esserci utile». E così cominciò la carriera di quell'uomo con il pallino dell'informazione. Un uomo, anzi, un giovane, che stava lì ad immaginarsi chi come e cosa l'avrebbero visionato e giudicato, forse con paura, ma con tanta voglia di fare. E quella era un'epoca nella quale c'era da tirarsi su le maniche. Le prove saranno superate e alla fine arriveranno gli incarichi, prestigiosi. Una carriera gloriosa e faticosa che lo porterà da una radiocronaca, tutto sommato non molto diversa da quelle con l'altoparlante attaccato al muro, a traguardi notevolissimi del giornalismo. Come l'intervista a Wernher von Braun, un uomo che proiettò il giovane Sergio verso sogni che erano ben più che a colori. Von Braun era un uomo eccezionale e anche misterioso: nato professionalmente sotto la croce uncinata di Hitler, a guerra ormai persa si era offerto al nemico americano per costruire i missili di cui aveva tanto bisogno. Un uomo difficile, ma anche affascinante. «Se l'universo è un oceano da attraversare - gli disse il padre del Saturno V - ci siamo appena bagnati i piedi sulla riva». Tra le tante esperienze di questa lunga, ritmata carriera di Zavoli, non sono mancate quelle drammatiche. E la penna del giornalista non le evita, non le sfugge. Le offre al lettore per quello che sono. Notizie di cronaca, ma che non possono lasciare freddi. Come le sconcertanti interviste, negli anni Settanta, ai bambini di Bombay, feriti e mutilati dai boss locali per fare pietà e impressione e mandarli poi a mendicare. Le ultime pagine del libro sono dedicate alla scienza, all'etica e anche alla fede. Un qualcosa, la fede, che occupa un posto importante nella vita di quest'uomo che nel suo correre da un luogo all'altro, in questa sua frenesia di fare e fare bene non perde mai di vista l'importanza di un qualcosa di «superiore». Le ultime pagine del libro Zavoli le dedica allo scienziato, genetista, ma anche filosofo, nonché premio Nobel, Jean Rostand. Un uomo che parla di sogni, di desideri, di informazione. Ma soprattutto parla di amore come di qualcosa in grado di risolvere problemi apparentemente irrisolvibili. Ma, cosa curiosa, svela quasi per caso Zavoli, quell'uomo vuole definirsi ateo. E sorge il sospetto: saper «sognare a colori» non è una questione di fantasia, ma di fede.