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L'espansione dell'universo coincide con il Big Bang

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L'infinitamentegrande ha, insieme, reso minimo l'uomo, rispetto all'Universo, reso grande l'uomo, perché capace di comprendere la vastità dell'Universo, e suscitato l'ipotesi o la necessità di Dio, poiché non è di certo l'uomo ad aver creato o armonizzato il Cosmo. Albert Einstein, forse la mente che più di ogni altra compenetrò, contenne, valutò le distanze inenarrabili, gli equilibri minuziosi e possenti, i contrasti furibondi, le forze sovrane che sommuovono e reggono in precisa armonia l'Universo, da restarne abbagliata, incantata da questa orologeria cosmica, da ritenere che un'Intelligenza vivesse dentro il Cosmo, superiorissima all'umana, e che l'uomo non poteva che riverire, fondando una religione tramite la scienza, giacchè è la scienza che ci scopra l'ordine dell'Insieme: «Lo scienziato è posseduto dal senso di causalità cosmica(...). Il suo sentimento religioso prende forma di uno stupore rapito davanti all'armonia della legge naturale, che rivela un'intelligenza di tale superiorità che, al confronto, tutto il pensiero e l'agire sistematici degli esseri umani sono un riflesso assolutamente insignificante». Sarà stato di certo connesso il pensiero di Einstein all'argomentazione di Tommaso d'Aquino sulle «prove» dell'esistenza di Dio. La Quinta Prova somiglia a quanto scrive Einstein. Tommaso rileva i corpi fisici, privi di conoscenza, i quali, tuttavia, ripetono i loro movimenti e sono disposti a una finalità: «Ora, ciò che privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, al modo della freccia dell'arciere. Vi è dunque qualche essere intelligente, da cui tutte le cose naturali sono ordinate a un fine; e quest'essere chiamiamo Dio». Queste considerazioni sono indispensabili per cogliere la novità del testo oggetto di analisi. Giacchè non sono queste considerazioni a muovere la mano e la mente di Roger Penrose, noto fisico e docente emerito all'Università di Oxord. Nel testo appena pubblicato con la Rizzoli «Dal Big Bang all'Eternità», Penrose svolge, a livello complesso, una problematica che filosofi e religiosi sormontano da sempre, risolvendolo in differenziatissimi modi. Quale problematica? Quella del titolo del volume, «dal Big Bang all'eternità. Il «titolo» ha in sé la problematica. Vuol significare che il «Big Bang» inizia una realtà eterna? Che non c'è termine ultimo? E dal punto di vista scientifico: il secondo principio della termodinamica, la dissoluzione della materia organizzata, che validità mantiene se l'Universo fosse eterno? O si tratta di una eternità nel senso che l'Universo, gli Universi, il Cosmo si disorganizza ma poi si restituisce all'organicità? È questa la convinzione di Penrose. Convinzione presente in religioni, filosofie, poemi. Penrose, ecco la sua specificità, non si limita alla immaginazione, intende dimostrare la precedenza di anteriori universi, periti e risorti. Una doppia originalità, dunque: oltrepassare la tematica dell'armonia universale, cara a Tommaso e ad Einstein; «dimostrare» che gli universi esistono assai prima del nostro. Certo, sarebbe rilevantissimo dimostrare che vi sono reminiscenze di universi precedenti ai nostri universi, di Eoni antecedenti; che il Big Bang è l'inizio di qualcosa di ancora più remoto che è svanito per risorgere con il nuovo Big Bang, che il «nostro» Big Bang non è il primo Big Bang... Certo, dicevo, sarebbe fantasticantissimo dimostrare che tanti Big Bang si sono ripetuti e tantissimi universi e universi si sono formati e lacerati. La differenza tra i religiosi, i filosofi, i poeti e il fisico, lo scienziato Penrose, consiste nel voler Penrose dimostrare, insisto, quel che poeti, religiosi, filosofi hanno immaginato. L'induismo, lo stoicismo, Leopardi, Nietzsche hanno a chiare argomentazioni celebrato o dolentemente considerato che vita e morte, Eros e Thanatos «ciclicano» il divenire. Al dunque, Penrose tratta una visione conosciutissima a poeti, filosofi, religiosi, e che a lui sembra originale solo perché non considera l'induismo, Lucrezio, Seneca, e tanti altri? Sarei tentato di dirlo. Al solito, la scienza sfigura al paragone dell'arte, della religione, della filosofia. Sarei tentato di di dirlo. Ma sarebbe dilettantesco, dirlo. Quando Penrose tratteggia la materia che svanisce dentro i buchi neri e impedisce che sia conosciuta la loro passata esistenza, che sia conosciuta la traccia di una realtà preesistente al «nostro» Big Bang, che siano conosciuti i residui di mondi precedenti ai nostri mondi, quasi che i buchi neri chiudessero le porte alla conoscenze di ciò che fu prima della «nostra» realtà, in tal caso la scienza diventa meravigliosa poesia. Pensate: i buchi neri racchiudono i segreti dei mondi prima del nostro mondo! Lo sforzo di Penrose è cercare di scardinare quelle porte chiuse e individuare tracce di mondi prima del nostro. Uno sforzo davvero animatissimo, travolgente. E tuttavia, non c'è scampo, la scienza è, pur meravigliosa, limitata. Giacchè la vera quastione non è se siano esistiti universi prima dei nostri universi, ma come mai esistono gli universi, come mai esiste ciò che esiste. Penrose, è soltanto uno scienziato, non si pone la questione del come mai la realtà esiste, si interroga sul «da quanto esiste». Ma abbiamo la religione, la poesia, la filosofia per rilevare la domanda essenziale: come mai, perché esiste la realtà?

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