Sotto l'albero di Schiaccianoci
Ilsogno, la rêverie. E la cornice perbenista e borghese mitteleuropea, un interno di famiglia benestante, dove tutto è apparentemente in ordine e invece serpeggia l'inquietudine. È il grumo del racconto attorno al quale ruota quell'oggetto tanto famigliare in queste giornate, lo schiaccianoci. Un principe-pupazzo che attizza il sogno d'evasione, fatto di paura e speranze di una bambina, catapultata tra il ghigno di topi e l'incanto della Fata Confetto. «Schiaccianoci» è la favola per eccellenza del Natale. Ci fa volare, turba, consola con l'opulenza dei doni, dell'albero luccicante che diventa gigantesco, sazia e rassicura. La storia inventata da Hoffmann nel 1816 e raddolcita più tardi dal mondano Alexandre Dumas, si impernia sul soldatino di legno che serra le mascelle e stritola il guscio di noce. Ed è diventata di culto quando il russo Ciaikovsky l'ha musicata e Petipa ne ha tratto un balletto poi replicato in versione cinematografica da Disney (il film Fantasia) e ora dal russo Konchalovsky. Il quale ultimo ha riletto la fiaba come metafora dell'evento più tragico del Novecento, il nazismo. E infatti il re dei topi è un pazzo Hitlerino e la città è oscurata dalla Fabbrica del fumo, dove si bruciano i giocattoli di tutti i bambini. Ma il regista moscovita ha anche rispolverato gli usi e costumi russi. Le vetrine della sua città espongono sempre il giocattolo-utensile di legno col cappelletto rosso da soldato capace di schiacciare tra i denti il guscio di noce. E nel film in 3D lo Schiaccianoci è raffigurato proprio così, con quella bocca piena di denti stritolatori. Però il rito della «schiaccia» della frutta secca - noci, nocchie, mandorle - si ripete in questo periodo anche nel nostro Sud. Il freddo, il vento, la pioggia, le feste da passare in casa seduti attorno a un tavolo, con al centro la tombola o le carte per il tressette. E, accanto, appunto qualcuno di quegli aggeggi buoni a perforare i frutti dal guscio duro e fragile e a carpire il gheriglio oleoso e nutriente. C'è tutta una saggezza popolare attorno alla noce. Ne bastavano quattro ai poveracci di Gioachino Belli per chiudere in bellezza la magra cena: «Quarche vorta se famo una frittata,/ Che ssi la metti ar lume ce se specchia/ Come fussi a ttraverzo d'un'orecchia:/ Quattro noce, e la cena è terminata», scrive nel sonetto La bona famija. Il manzoniano Fra' Galdino bussa alla porta di Lucia e Agnese con la bisaccia sulle spalle. Chiede l'elemosina, fa la «cerca delle noci». Sorrento e la Campania vanno fiere delle loro. E s'impuntano a spiegare come riconoscerle: sono piccole e con la punta. Ma è ancora nelle foresterie dei monasteri e nelle aziende contadine che si smercia il liquore Nocino. E non si contano le schiacciate, i pangialli, i panforti, le nocciolate che declinano dal Centro al Sud dello Stivale i dolci natalizi. Ecco allora che noci e schiaccianoci rimandano al mistero dei boschi e alla opulenza sottesi alla favola di Hoffmann e al balletto commissionato a Petipa dal direttore dei Teatri Imperiali Russi. Del resto nell'antica Roma la noce era consacratata a Giove, il re degli dei. Ed era perciò simbolo di agiatezza, frutto augurale con il quale il giorno delle nozze si cospargeva il pavimento della casa dello sposo. Il Cristianesimo dà a guscio e gheriglio ulteriori significati. Mandorle, nocciole e noci, frutti intercambiabili, alludono alla Trinità. La mandorla è presente nell'iconografia di Cristo e della Madonna. Un'aureola che li racchiude, come il guscio della loro gloria. Madre e Figlio per sempre uniti. Dal 25 dicembre.