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di Lidia Lombardi Quod non fecerunt Barbari, Barberini fecerunt.

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Maalla «pasquinata» si stenta a credere quando si varca il cancello di via delle Quattro Fontane 13, dove si impone la mole di Palazzo Barberini. Quasi una città nella città, nell'intrico di volte, scale, cortili del più scenografico barocco. E il più articolato museo romano, quella Galleria Nazionale di Arte Antica che conserva - per dire solo delle opere-logo - la Fornarina di Raffaello e Giuditta e Oloferne di Caravaggio. Da ieri questa istituzione ha qualcosa in più. Novecento metri quadrati al pianterreno, ala sud, restaurati in un anno dopo la definitiva uscita dalle stanze del Circolo Ufficiali, che per sessant'anni ha tenuto qui feste e ricevimenti. Ora gli spazi sono riservati alle mostre, mentre l'ala opposta - pure detenuta per decenni dai militari - è adibita alla collezione permanente. «Lo Stato - spiega Anna Lo Bianco, direttore della Galleria - comprò il palazzo dai Barberini nel 1947, trovando già affittato al Circolo il pianterreno. Sperava di poterlo sgombrare subito e sistemare adeguatamente la Galleria d'Arte Antica, ricca di 1400 opere, dal Duecento al Settecento. Invece ha dovuto aspettare fino a cinque anni fa. E solo nel 2010, con gli ultimi fondi, si è affrontato l'adeguamento di queste sale all'uso espositivo». Rossella Vodret, sovrindentente del Polo museale romano, ha preso al balzo la palla dei nuovi spazi per dedicare una rassegna a un grande della pittura, contemporaneo alla costruzione del palazzo, diventato famoso a Roma e presente nelle collezioni del museo. È messer Francesco Guerrieri da Cento, in Emilia, diventato famoso come Guercino per quell'occhio strabico dovuto - secondo vulgata - a uno spavento subìto quand'era nella culla. La metà dei 35 dipinti esposti - 17 vengono dalla Pinacoteca della città natale e il suo direttore Fausto Gozzi ha affiancato Vodret nel progetto espositivo - escono da collezioni pubbliche e private della Capitale e dalle più suggestive chiese. E dunque visitare questa mostra è conoscere meglio la storia del Seicento a Roma, dove Guercino venne chiamato nel 1621 dal papa bolognese Gregorio XV Ludovisi che col nipote, il cardinale Ludovico, gli commissionò l'affresco per il salone del suo Casino. E l'artista, talento naturale raffinato alla scuola di Ludovico Carracci, altra star esplosa all'ombra del Cupolone, vi dipinse il capolavoro dell'Aurora. Nella rassegna - nata anche in omaggio a sir Denis Mahon, il critico inglese da poco scomparso che rivalutò, mezzo secolo fa, il Seicento romano da Caravaggio a Guido Reni e appunto al Guercino - giganteggiano la pala con Santa Petronilla sepolta e accolta in cielo e la florida Cleopatra davanti a Ottaviano Augusto entrambe oggi alla Pinacoteca Capitolina. Ecco poi il clero romano col Ritratto del Cardinale Spada, dalla omonima Galleria. Emoziona il Ritratto del figliol prodigo della Galleria Borghese. E i quadri nelle chiese, la Santa Margherita di Antiochia da San Pietro in Vincoli e l'Estasi di San Filippo da Santa Maria in Vallicella. Punteggiano una carriera strepitosa e costruita a tavolino. Il Barbieri - dicono i suoi libri contabili - faceva passare un anno dalla caparra al saldo della sua opera e così poteva lavorare anche dodici quadri contemporaneamente. E vendeva a prezzi salati: cento ducatoni per una figura intera, 50 per la mezza figura, 25 per una sola testa, ancor meno per i puttini. Così agli eredi lasciò non sono monete sonanti ma 200 dipinti e 5 mila disegni. Le 35 opere splendono sotto i soffitti nobilitati da stucchi con api, fiori, nastri e il Sole, simbolo dei Barberini. Usciti fuori, si ritrova il giardino che era vanto dei principi, con specie rare curate da botanici chiamati a corte insieme ai musici, agli artisti e ai letterati. E si ritrovano le due scale fronteggianti, quella pomposa del Bernini, quella elicoidale (un meraviglioso esercizio intellettuale) del Borromini. Non erano affatto barbari, i Barberini.

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