di Carlo Antini Quante notti passate ad ascoltare il canto degli uccelli sdraiato sul suo letto nella veranda superiore.
Quellafinestra spalancata sul mare delle Isole Samoa era una porta aperta sull'anima di Robert Louis Stevenson. Il suo corpo malconcio lo teneva fermo nel suo letto di Vailima ma la sua mente saltava come un grillo. Di mattina buttava giù gli appunti e nel pomeriggio dettava i suoi lavori ai figliastri. Nell'esilio dorato del paradiso naturale dove l'aveva costretto la salute cagionevole, Stevenson non pensava solo alla letteratura. Come Dottor Jekyll e Mr. Hyde nascondeva un'altra identità, un'altra passione, un'altra faccia. Stevenson era anche un musicista, conoscitore della grammatica degli spartiti e autore di melodie che accompagnavano le sue giornate al flauto. Ed è proprio il canto notturno di quegli uccelli, quella voce nella sua mente che è diventata melodia, è diventata spartito. Ed è giunta fino a noi grazie a sua moglie Fanny Van de Grift Osbourne. La Osbourne ha pubblicato lo spartito nella prefazione che ha scritto per «St. Yves», uno degli ultimi romanzi dell'autore de «L'isola del tesoro». «Le notti di Vailima», questo il titolo della composizione musicale, è tornata alla luce dopo il ritrovamento del libro da parte di Liliana Monfregola. La studiosa di Stevenson si è imbattuta nell'edizione originale di «St. Yves» durante un viaggio in Sussex, nel sud dell'Inghilterra. Il libello si trovava in una piccola libreria dell'usato. La studiosa ha cominciato a leggere la prefazione restando colpita proprio da quello spartito. Da quella prova inconfutabile che, dietro la fama di scrittore, si nasconde un artista che amava parlare anche attraverso le note della musica. Come descrive perfettamente la moglie Fanny van De Grift Osbourne nell'introduzione del libro. «Qualche volta mio marito – da vero autodidatta – suonava il suo zufolo o provava a fare piccole composizioni in musica. La sua conoscenza musicale non era molto profonda, la considerava un divertimento e gli interessava tentare qualche esercizio come il frammento che ho riportato qui sotto, il quale vuole indicare il suono degli uccelli nella notte. Mentre mio marito preferiva fare il lavoro preparatorio al mattino e il dettato nel pomeriggio, la ripartizione delle ore non era assolutamente rigorosa. Alcune mattine, come ho detto, potevano anche essere dedicate a suonare lo zufolo, a comporre musica o versi, che però non considerava seriamente». Tutto questo viene riportato fedelmente sul sito www.satisfiction.me, il nuovo portale dedicato agli amanti della lettura, da ieri on line. Lo spartito compare nella terza edizione di «St. Yves» pubblicata nel 1925. Il nome della casa editrice descrive meglio di tante parole la sintonia tra lo scrittore e la Polinesia: Tusitala Edition. Tusitala era il nome che gli indigeni avevano dato a Stevenson e che, nella loro lingua, significa «grande saggio». Per gli abitanti delle Samoa e di Vailima, Robert Louis Stevenson non era il grande romanziere che si dilettava con la musica, non era il malato che aveva scelto la natura incontaminata delle isole per curare i polmoni, ma era il saggio, l'uomo di spirito che spronava gli indigeni a rimboccarsi le maniche e reagire alla colonizzazione europea attraverso il lavoro nei campi. Specchio e testimonianza di una personalità indomita, che nemmeno la lunga malattia riuscì a minare. L'infanzia trascorsa a sognare una fulgida carriera militare. La maturità impegnata ad affrontare i fortissimi attacchi di tosse. Nel maggio del 1892 (aveva solo quarantadue anni), scrisse al suo amico Sidney Colvin: «Ho vissuto quarant'anni e ho resistito per altri due, ho avuto tempo per vivere senza disonore. Se solo fossi sicuro di una morte violenta, che strepitoso finale sarebbe! Vorrei poter morire nelle mie scarpe, non avere della terra come copriletto sopra di me. Morire annegato o ucciso o cadendo da cavallo – ah, morire stroncato da un colpo, piuttosto che rivivere ancora quella lenta dissoluzione». Indomito guerriero.