Lettere ardenti Quadri violenti La passione di Artemisia
Genio e vendetta della Gentileschi «pittora» romana fatta stuprare dal padre
Èil celeberrimo «Giuditta che taglia la testa ad Oloferne», anno 1612, museo Capodimonte di Napoli. Ora interrogatevi sulla violenza bruta della donna. Tozze e forti sono le sue braccia, tenaglie virili a tenere ferma, nella vendetta, la testa dell'uomo. Non è un pittore a firmare la tremenda scena. Ma una «pittora», tra le più grandi della storia. Artemisia Gentileschi rivela il suo universo potente nella mostra a Palazzo Reale di Milano. Una sequenza di quadri violenti, come «Giaele e Sisara», dove la protagonista senza un minimo tentennamento conficca un paletto nella tempia del suo torturatore e schizza anche qui il sangue. Perché tanto odio, tanta truculenza? L'arte di Artemisia (nomen omen) non si spiega senza la sua storia privata. Che si raggruma in un episodio sconvolgente: nella Roma sfrenata, quella stessa dove Caravaggio giocando alla pallacorda commise il delitto che gli segnò la vita, la sedicenne Artemisia venne stuprata. E il peggio è che - da testimonianze nel processo - ad architettare la violenza fu il padre-padrone Orazio, pittore manierista alla corte dei papi Gregorio XIII e Sisto V. Perché è vero che alla sbarra per la violenza fu Agostino Tassi, uno degli artisti che frequentava la bottega e la casa Gentileschi. Ma è anche vero che l'incolpato testimoniò che Artemisia si lamentava con lui della morbosità del padre, che addirittura la «trattava come la moglie». Uno dei più famosi quadri di Artemisia, «Susanna e i Vecchioni» sottende un significato preciso. La fanciulla è nuda e si ritrae per non sentire quello che due personaggi - uno giovane e bruno, l'altro dai capelli grigi - gli sussurrano all'orecchio. La mostra a Palazzo Reale si intitola «Artemisia Gentileschi. Storia di una passione». E dunque compendia subito vita earte della «pittora» protofemminista. L'allestimento è firmato da Emma Dante, regista mediterranea che fa parlare le viscere dei suoi protagonisti. Precede la sequenza dei dipinti - 52 - una «scena teatrale»: la prima sala della mostra è una camera da letto e il giaciglio si colora pian piano di sangue. Ecco il luogo della violenza. E sopra, dal lampadario, pendono fogli e fogli, manoscritti ingialliti. Sono le parole che Artemisia consegnò al giudice durante il processo. Ma altre parole, lettere, sono dalla scorsa primavera attribuite alla Gentileschi. L'epistolario inviato all'amore della sua vita, il gentiluomo fiorentino Francesco Maria Maringhi. L'amante, perché Orazio dopo lo stupro costringe la figlia a sposare Pierantonio Stiattesi, modesto pittore toscano. Ma l'onore di Artemisia è per sempre compromesso. Lascia Roma, si reca a Firenze, dove conquista la stima di Cosimo de' Medici, di Michelangelo, di Galilei. Conosce Maringhi, che la sostiene e l'ama. A Palazzo Reale c'è uno stralcio delle missive inviate da Artemisia al Maringhi. Le ha ritrovate la scorsa primavera Francesco Solinas nell'archivio fiorentino di Casa Frescobaldi e l'intero corpus è stato appena pubblicato dal raffinato editore romano De Luca («Lettere di Artemisia» a cura di Francesco Solinas). Come il pennello, la penna della «pittora». A tinte forti. Così accanto ad echi del teatro di Chiabrera, di Rinuccini, di Michelangelo scrittore lei urla, s'indigna, inveisce. Spesso contro altre donne. «Arcinfamissima, ruffiana, strega, maliarda, poltrona, puttana», si rivolge a una dama fiorentina. Scrive a Maringhi anche il pavido marito di Artemisia, che sa della liaison e l'accetta. Pierantonio anzi magnifica presso Maringhi la madre dei suoi figli, la corrusca pittora. E racconta delle liti di lei con il padre e i fratelli e dei suoi incontri con principi romani e cardinali, provvidi committenti. Ma risuona anche, a Palazzo Reale, il racconto dello strupro, come lo rese Artemisia ai giudici. «...Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto...». La stessa brutale mano di Giuditta.