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Le case discografiche

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al punto di fusione Ma i cd si squagliano Settore sotto tiro tra crisi e speculazioni La colpa è anche dei musicisti bizzosi

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Orasono rimaste in tre: Sony, Bmg-Bertelsmann e appunto Universal, che per 1,4 miliardi di euro è diventata di fatto proprietaria della casa discografica che ha pubblicato i dischi dei Beatles, dei Rolling Stones, dei Pink Floyd e di David Bowie, ma anche di rock-star dei nostri anni, tipo i Coldplay e la cantante americana Kate Perry. L'operazione di economia discografica arriva alla fine di una lunga crisi della Emi, che da importante casa discografica inglese aveva visto via via sgretolare la sua posizione nell'ambito musicale, fino alla bancarotta del finanziere Guy Hands, che qualche anno fa si era indebitato di quattro miliardi di dollari per acquisire l'importante marchio. L'accordo appena sancito non è arrivato di sorpresa e sembra confermare l'attuale andamento negativo della discografia in tutto il mondo. Oggi i profitti musicali arrivano sempre meno dalla vendita discografica e sempre più dalla cosiddette "licenze", ovvero lo sfruttamento del repertorio, la vendita ai videogiochi, l'utilizzazione della pubblicità e della telefonia ed è proprio in questa logica che arrivano gli appetiti, che ormai privilegiano le etichette che hanno brani in cassaforte rispetto a quelle che magari investono sui nuovi talenti. Dalla bolla speculativa al default, il mercato discografico appare sempre più incontrollabile e soprattutto non più in grado di assicurare margini di profitto indispensabili per sperimentare. Un quadro devastante, le cui responsabilità - e su questo sembrano essere d'accordo tutti - vanno attribuite proprio ai discografici, colpevoli di aver assecondato per anni le bizze e i capricci dei musicisti. Se oggi l'era della musica liquida da Napster fino a iTunes, propone singoli brani e non più album è dovuto al fatto che il pubblico si era stancato di acquistare un cd con uno o due brani graditi e il resto da cassonetto. Una situazione che ha decretato la morte del supporto con una ricaduta pesantissima sul piano occupazionale. In Italia, giusto la scorsa settimana, ha chiuso i battenti la storica fabbrica di Caronno Pertusella, abituata a stampare dischi a milioni di copie fin dai tempi del vinile. Le cifre sono fortemente scoraggianti: dai 338 milioni di euro di fatturato del 2001 si è passati ai 120 del 2010, il tutto con una scarsa propensione degli appassionati italiani nei confronti degli acquisti on line: soltanto il 2%, mentre la media europea è dell'11%. Anche la televisione, veicolo indispensabile per la diffusione della musica, prende qualche cantonata. La prima puntata del "Chiambretti Muzik Show" su Italia 1 è stata accolta con freddezza (8% di share) e nel dibattito sulla crisi della musica si è confuso YouTube con iTunes. A pensare che la mission del programma era quella di catturare il pubblico giovane. Forse perché ormai parlare della crisi discografica è come parlare della crisi del varietà.

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