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di Lidia Lombardi Il sipario cala ogni anno per quindici milioni di spettatori.

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Aridurli all'afasia sono direttori di testate ed editori. La recensione è genere che stufa, dicono quasi tutti. Nessuna meraviglia oggi che le pagine culturali virano spesso sull'infotainment. E che, come corollario, la stroncatura sia introvabile come l'araba fenice, poiché parlar male di qualcuno significa farsi dei nemici ed è esercizio che non conviene mai. Invece Giovanni Antonucci, che il teatro lo spiega, lo fa e lo insegna da 40 anni, punta i piedi e chiama a raccolta le menti sveglie intitolando a loro «Lo spettatore non addormentato» (Edizioni Studium). La sveglia la dà raccogliendo in libro le proprie recensioni. Operazione non automatica però perché tali giganti Antonucci ha giudicato che il volumetto diventa una storia del teatro sul campo. Basta scorrere l'indice dei nomi per avere un'idea: da Rossella Falk a Romolo Valli, da Peter Brook a Robert Wilson, da Ibsen a Petrolini, dalle ribalte di New York a quelle di Parigi e di Londra. La «lezione» funziona perché è indenne da due difetti, che appunto un po' giustificano la diffidenza verso il format «recensione». Antonucci rifugge programmaticamente dal critichese e dà argomentate legnate quando davvero ci vogliono. E poi inquadra ogni testo nella storia della drammaturgia. Insomma, compie ciò che è utile: «Mediare tra chi fa teatro e il pubblico». Prendiamo uno di quegli spettacoli sui quali nessuno oserebbe arricciare il naso: autore Shakespeare, regista Luca Ronconi, protagonista Vittorio Gassman. Ebbene, del «Riccardo III» andato in scena nel 1968 Antonucci svela l'equivoco che fa traballare la regia, ossia la mania della reinterpretazione che riduce l'universo del Bardo nella sfera del «fisico e del primitivo». E se qui salva la scenografia, scoprendo in Mario Ceroli l'importante artista che poi diventerà, altrove individua operazioni ben riuscite proprio là dove il drammaturgo acerbamente zoppica, come nel Cechov dell'«Ivanov» diretto da Orazio Costa. Insomma, nessuna reverenza davanti alle mode, come quella che ha messo sugli altari un Eugenio Barba o un Lindsay Kemp. E misura anche quando altri dividono il pubblico. È il caso di Carmelo Bene, l'artista che «non ammette mezze misure» ma che mai tradisce «nella vocalità strepitosa» l'essenza del suo essere attore. Il pubblico ringrazia.

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