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Il coraggio dell'autoanalisi

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Dalla diffidenza per lo straniero alla rinascita La Némirovsky mette a nudo le proprie origini

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233,euro 18), un romanzo firmato da Irène Némirovsky, ebreo-ucraina di ricca famiglia borghese approdata in Francia per sfuggire ai bolscevichi. Indubbiamente «Gringoire» era antisemita. Ma nella sezione letteraria si mostrava da sempre aperta alle grandi firme, indipendentemente dalle «appartenenze». E se vi figuravano intellettuali apertamente fascisti come Robert Brasillach e Drieu La Rochelle, vi poteva trovare spazio anche Irène Némirovsky che fascista non era e non faceva politica, ma riscuoteva apprezzamenti presso le varie destre che si raccoglievano intorno alla testata. Ed erano stati proprio Brasillach e Drieu, tutt'altro che teneri con gli ebrei, a riconoscerne il talento, sin da quando Irène, nel 1929, ad appena ventisei anni, aveva rivelato la sua originale cifra narrativa e la sua capacità di «provocazione» con «David Golder». Suscitando scandalo, visto che il protagonista era un uomo d'affari ebreo, chiaramente calcato sulla figura paterna. E sposato a una donna vanitosa e infedele, calco della madre, da sempre detestata per il suo disamore. Irène, spietata, non le concedeva alcuna attenuante. Come! Lei, ebrea, prendeva le distanze dal suo mondo in maniera così polemica? Sono una scrittrice, aveva risposto Irène a chi la contestava, non ho obblighi verso nessuno, non ho pregiudizi e non voglio che nessuno li nutra nei miei confronti, racconto quel che vedo, si tratti di ebrei o di cristiani. A partire da quel fortunato esordio, attraverso romanzi come «Il ballo», «Il vino della solitudine», «Jezabel», «I cani e i lupi», Irène aveva dimostrato di essere tutt'altro che una meteora. Così, le porte delle più importanti riviste letterarie le avevano fatto ponti d'oro. Anche se negli ambienti ebraici e in quelli della sinistra c'era chi continuava a rimproverarla di utilizzare stereotipi che sembravano presi pari pari dalla pubblicistica antisemita. Gli interrogativi, particolarmente scottanti se si considera che tanto Irène quanto il marito Daniel Epstein moriranno ad Auschwitz nel 1943, ci hanno accompagnato in questi anni nella riscoperta adelphiana della Némirovsky e tornano nel saggio di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt, biografi di Irène, in appendice al «Signore delle anime». In realtà, Irène non rinnegò mai la sua identità, ma rivendicò sempre la sua libertà. Si sentiva chiamata a raccontare quello che aveva visto e che vedeva. Tutto, senza riserva alcuna. Portando alla luce la complessità del reale, le ricchezze e le miserie del cuore umano e quello che lei chiamava «il calore del sangue». E cioè proprio i tratti, i «segni» di ogni «appartenenza». Si trattasse del mondo ebraico o della cristianissima provincia francese, degli affaristi e dei banchieri oppure della borghesia di campagna, la sua «arma» di scrittrice doveva essere una sonda implacabile che cogliesse sfumature e contraddizioni del comportamento umano. Tanto più numerose (e dolorose) quanto più significativi sono i nostri legami «ancestrali». La nostra «materia» e il nostro «spirito». Il nostro «destino». Pesante come un macigno. «Non si sfugge al proprio destino», dice Dario Asfar, il protagonista del «Signore delle anime», un romanzo urtante, addirittura «sgradevole», nella sua implacabile messa a nudo del cuore umano. Dario è un giovane medico immigrato in Francia dalla natìa Crimea: figlio di un venditore ambulante di tappeti, bruno, la barba lunga, la carnagione olivastra, lo sguardo avido tipico del «meteco» di «razza levantina», cerca rispetto, accoglienza e dignità. Ma all'inizio ispira diffidenza: solo i miserabili vanno a curarsi da quello straniero dall'aria famelica. In seguito, Dario diventerà un ricco e apprezzato «medico delle anime» e cioè uno «psicanalista» che, con un «metodo» originale, libera da angosce e conflitti i clienti che affollano il suo studio. Ma da angosce e conflitti non libera se stesso: non c'è «avvenire», ma solo «fatalità» e «maledizione» per lui, un «ciarlatano», un astuto e querulo «venditore di tappeti». Come suo padre.

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