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Tre donne e la storia dell'Afghanistan oggi perduto

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UnPaese diverso da quello in guerra, fatto di bombe, milizie, terroristi e morte. L'Afghanistan visto e descritto da tre donne, tre generazioni che raccontano quasi un secolo di vita a cavallo tra Oriente e Occidente. Nel libro, «La terra dei peschi selvaggi» edito da Sperling&Kupfer, Diana Nasher racconta la storia della sua famiglia, dall'inizio del Novecento fino al colpo di stato e l'invasione delle truppe sovietiche nel 1979. Questa è la data che fissa l'inizio della catastrofe che avrebbe cambiato tutto, il momento che ha innescato la sofferenza di questo paese un tempo ricco e vivace. La storia della dinastia Nasher è un grande racconto afghano-europeo che si comincia alla fine del 1920 quando un giovane della classe media afghana va a studiare chimica in Germania e si innamora, ricambiato, di una giovane donna tedesca di buona famiglia. Elisabeth, Mariam e Diana: le loro vite si intrecciano inestricabilmente con la storia dell'Afghanistan e della Germania: due culture così diverse tra loro. L'ascesa del nazismo e l'incontro di Elisabeth con il giovane Hitler a occidente. A oriente, l'evoluzione di un Paese fermo nelle sue tradizioni che lentamente si avviava verso il precipizio illudendosi di vivere un periodo d'oro durante il lungo regno di Shah Mohammad Sahir. Un Afghanistan dove la vita scorreva serena. I bambini potevano scorrazzare nei campi senza saltare sulle mine e le pianure si coloravano delle fioriture dei peschi selvatici e non come, avverrà in seguito, rami scheletrici addobbati con i nastri magnetici delle cassette, video e sonore, messe al bando dai talebani. Diana Nasher racconta la storia di un paese di patriarchi potenti le cui madri e le mogli sono sempre state direttamente coinvolte nella loro fortune e sfortune. La presenza costante del burqa, indossato anche da «nonna» Elisabeth negli anni Trenta, molti anni prima che i talebani si trasformassero da semplici studenti del Corano in politici e in mujahedin. Leggero il passaggio sul Natale a Kunduz, tra Gesù bambino e l'insegnante «talib», talebano appunto, che preferisce giocare con i fratellastri della protagonista, afghani, piuttosto che insegnare a quella ragazzina distratta intrisa di cultura mitteleuropea. Tutto inizia quando Elisabeth conosce un giovane studente di chimica afghano, Mohammed Omar. Terminati gli studi in Germania, Omar torna a Herat, ma fa di tutto per far andare in Afghanistan la ragazza tedesca di cui è innamorato. E ci riesce: Elisabeth, contro il parere della famiglia, lo raggiungerà. Il sogno si infrange quando Omar finisce in prigione e Elisabeth e resta sola in un mondo chiuso e ostile agli stranieri. L'obbligo del burqa, dei controlli della polizia. Gli arresti domiciliari. Alla fine la donna, con la figlia, Mariam, farà ritorno in Germania poco prima dello scoppio della seconda Guerra Mondiale. Anni bui in Europa. Poi, finita la guerra, la nostalgia della terra dei peschi selvatici riporterà le due donne nuovamente in Afghanistan alla ricerca di quel marito e padre perduto. E nasce una nuova storia d'amore. Mariam, giovanissima sposa di un nobile pashtun, dodici anni più grande di lei, sfrutta il suo ruolo di «principessa» per dare impulso alle sue idee progressiste. La coppia avrà cinque figli: la primogenita, Diana, è l'autrice del libro. Mariam fonda una scuola femminile ed educa i figli miscelando tradizione afghana e cultura tedesca. È l'Afghanistan degli anni Sessanta con le hostess della compagnia aerea di Kabul in minigonna e la città di Herat eletta a meta degli hippies. L'Afghanistan dove il disgelo fa rinascere fiori e sentimenti. «Sogni di primavera» li descrive Diana Nasher e ci conduce lungo i sentieri della steppa dove l'orizzonte si popola di greggi e i fili d'erba sono tempestati di fiori: «sfolgoranti tulipani e campanule blu». Le vacanze alle pendici dell'Hindukush con le corse a piedi nudi nei ruscelli. I soggiorni nelle case progettate da architetti italiani alla periferia di Kabul vicino alla dimora del re e i suoi giardini rigogliosi. È il racconto di un sogno. Di un utopia. Di quelle cartoline descritte da Diana Nasher rimane ben poco. Quando la neve si ritira non c'è spazio per scampagnate: è il momento dell'offensiva militare dei talebani e di nuove stragi. Kabul si presenta ancora con i suoi palazzi violentati da trent'anni di guerre. Da bombe dei sovietici, dei mujahedin, dei talebani e ancora degli americani. E oggi dei terroristi che semimano il terrore nelle strade. Diana, figlia di Mariam, lascia l'Afghanistan in cui è cresciuta per studiare medicina a Praga. Non dimenticherà, però, il luogo da cui proviene, e di cui sentirà sempre una nostalgia profonda: di quando con i fratelli «sdraiati in mezzo ai fiori, guardavamo il blu del cielo immenso sopra di noi e sognavamo». In lontananza il suono di flauti. e «il dolce frusciare del vento». «Oggi quelle steppe si sono trasformate in campi minati.... non vi è più spazio per le grandi greggi». Il Paese che ha rubato il cuore a sua madre Mariam e a sua nonna Elisabeth prima di lei si trasformato in un incubo. «Nessuno sa quando ragazze felici e sognanti potranno di nuovo sdraiarsi nel mare profumato di fiori della steppa di Dasht-eAwdan», scrive con amarezza Diana. La donna è tornata in Afghanistan in questi anni e si è prodigata come medico. Anche per lei sono stati trent'anni di esilio. E ora, non può far a meno di pensare ai soldati americani, inglesi e di tante nazioni europee che muoiono per cercare di ridare un futuro al suo Paese.

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