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Soldi senza cravatta Il nuovo potere si chiama Marchionne

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Dacosa nasce e cosa rappresenta il successo di quest'uomo non uscito dalle batterie del potere italiano? Sergio Marchionne è l'altro volto della ricchezza italiana, il primo potere che sorge nel declino del nostro paese e si afferma proprio perché in grado di cogliere le opportunità della globalizzazione che vince sui sistemi nazionali. Non è un caso, dunque, che i rapporti fra il potere di Sergio Marchionne e quello del più influente uomo d'Italia, Silvio Berlusconi, siano sempre stati all'insegna di un reciproco disagio.(...) Marchionne si rende conto di dover giocare da solo la partita per la sopravvivenza. Da solo contro la crisi economica mondiale, da solo contro l'indifferenza del governo. Il manager dal maglioncino blu sa bene che, dopo aver portato il Lingotto fuori dalle secche della crisi di inizio millennio, lo attende una sfida altrettanto difficile e avvincente. Inizia così la fase due, una nuova era, in cui le armi della diplomazia vengono accantonate per impugnare lo scudo e la spada. Soprattutto, è arrivata l'ora di spingere la Fiat in mare aperto, costringerla ad abbandonare i lidi italici per lanciarla alla conquista di nuove terre. Ovvero nuove imprese. Marchionne individua un numero preciso, quasi magico, che fa da spartiacque fra la vita e la morte del suo gruppo: sei milioni di auto. Questo numero, dal sapore esoterico, è a suo dire la soglia minima che un produttore d'auto deve raggiungere per disporre di economie di scala sufficienti per sopravvivere, dando anche qualche soddisfazione agli azionisti, in un mercato dominato da una concorrenza agguerrita (come mai nella storia dell'industria automobilistica) e, soprattutto, massacrato dalla crisi economica mondiale. L'obiettivo appare lontano mille miglia, se si considerano solamente le forze del Lingotto, che produce all'anno circa due milioni di vetture, un terzo del punto critico individuato dai suoi vertici. L'unica alternativa che Marchionne ha davanti a sé è spostare il baricentro al di fuori dei confini italiani. Bisogna avere il coraggio di far diventare la Fiat una multinazionale, seguendo la strada delle alleanze internazionali. Una scelta obbligata, per Marchionne e gli Agnelli, anche se vorrà dire un minor peso della famiglia nel nuovo gruppo. Da questo momento in poi, Marchionne cambia marcia e comincia a comportarsi da giocatore globale: i referenti diventano altri; i rapporti si stringono altrove, non in Italia. A cominciare dal palazzo più importante del mondo, dove risiede l'uomo più potente: la Casa Bianca di Barack Obama. Il capo del Lingotto riesce, da abile negoziatore, a mettere a segno il colpo gobbo. La Chrysler è forse quella messa peggio fra le Big Three americane e l'amministrazione Usa non sa più come evitare il fallimento. Marchionne si accorge che la volontà di Obama è quella di salvare a tutti i costi il gruppo, anche svendendo l'azienda e anticipando soldi dei contribuenti americani, e si muove in fretta. Si offre di prendersi carico della società sull'orlo della bancarotta, a patto però di non sborsare un euro e di poter contare su prestiti governativi. L'amministrazione Obama accetta e il 30 aprile 2009 viene annunciata la firma dell'accordo tra le due case automobilistiche. La Fiat porta a casa gratis il 20% del colosso di Detroit, con la possibilità di salire, sempre gratis, al 35%, e di raggiungere il 51% con un modesto esborso in dollari. In cambio fornisce la sua tecnologia, le sue piattaforme e i suoi propulsori per vetture piccole e medie nonché la vasta rete di distribuzione in America Latina e in Europa. Un deal salutato con favore da Obama: «Con questa alleanza Chrysler avrà grosse chance di successo per un brillante futuro. Oggi sono stati fatti i passi necessari per ridare a Chrysler una nuova vita: Fiat è l'unica possibilità di salvezza». Dopo la Chrysler, che significa altri due milioni di auto, a Marchionne non rimane che provare a integrarsi con un altro gruppo della stessa stazza per raggiungere i sei tanto desiderati milioni. Manco a farlo apposta, in quei mesi la tedesca Opel (società da due milioni di vetture) viene messa sul mercato dalla Gm. Per il manager italo-canadese è la quadratura del cerchio. Tuttavia, stavolta il capo della Fiat ne esce sconfitto: il 30 maggio di quell'anno il governo tedesco decide di non vendere al Lingotto e preferisce consegnare la casa automobilistica a una cordata russo-austriaca (accordo poi non andato a buon fine e sciolto qualche mese più tardi). Nonostante i risultati altalenanti, una vittoria e una sconfitta, ormai il dado è tratto. La Fiat cambia volto, trasformandosi da azienda a base italiana in un gruppo a propulsione internazionale, con gran parte dei propri interessi al di là dell'oceano. Il cambio di paradigma, ovviamente, è gravido di conseguenze. Dall'estate 2009 in poi Marchionne comincia a non guardare in faccia nessuno, si comporta da commander-in-chief di una propria «nazione». Lo conferma Cipolletta: «Nello stesso istante in cui stringe l'accordo con Chrysler, Fiat diventa una grande industria multinazionale».

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